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Il foglio del weekend

Trump è ancora qui

Daniele Raineri

Chi pensa che lontano dalla Casa Bianca l’ex presidente abbia meno influenza si sbaglia. Il Partito repubblicano americano non ha arginato  i fanatici del trumpismo, anzi: ci investe. Ecco la storia di una redenzione che non c’è

Questo è un pezzo scritto per chi pensa che il Partito repubblicano americano abbia toccato il fondo durante l’irruzione al Congresso del 6 gennaio e che ora non possa che risalire. E’ un pezzo scritto per chi pensa che stia finalmente sfruttando questo periodo di lontananza dal potere e dai riflettori per fare autoanalisi e migliorare le cose. In fondo, dopo quel giorno era possibile pensare che il Partito repubblicano avesse cominciato un periodo di riflessione. Una folla di trumpiani pronta a uccidere poliziotti aveva appena invaso in diretta televisiva uno dei due luoghi simbolo della democrazia e ancora oggi non sappiamo cosa sarebbe successo se fossero riusciti a catturare il vicepresidente Mike Pence, accusato di essere un “traditore”, oppure a mettere le mani sui leader del Partito democratico, accusati di essere “satanisti che hanno rubato le elezioni a Donald Trump”. Non lo sappiamo, ma abbiamo motivi solidi per credere che la folla che cantava “impicchiamo Pence” e che colpiva gli agenti di polizia finiti a terra avrebbe linciato lui e i democratici. Non è successo soltanto perché Pence e gli altri sono stati evacuati in tempo oppure perché sono riusciti a nascondersi bene – e questo oggi facilita moltissimo il processo di rimozione. 

 

Quel pomeriggio era arrivata la discesa finale del Partito repubblicano-trumpiano nell’orrore del fanatismo. C’era parecchio materiale al quale pensare. L’uomo con le corna di bisonte, il poliziotto ucciso, il fumo dei lacrimogeni che sale dal Congresso, il patibolo con il nodo scorsoio eretto sul prato, le bandiere delle milizie, le magliette di QAnon, le squadre speciali della polizia che scivolano nei corridoi per portare in salvo i deputati nascosti negli uffici, la donna uccisa con una pistolettata in faccia perché cercava di passare attraverso una porta mezza sfondata, i tunnel barricati, la gente vestita da trekking perché così si suppone che si debba andare alla “rivolta antisatanisti”: comodi e con le scarpe antiscivolo. Non era mai successo prima. E quindi c’era questa ipotesi: il Partito repubblicano si chiederà “come siamo arrivati a questo punto” vero? Si renderà conto di avere condonato e ignorato l’estremismo troppo a lungo, quando proprio non lo ha creato, e magari si sbarazzerà di tutte le menzogne tossiche che avevano eccitato la folla – e assieme fanno la Big Lie, la grande bugia che mobilita i trumpiani da ogni angolo del paese – e annuncerà la fine della pazzia. Dopo quelle scene il Partito repubblicano americano è pronto a invertire la rotta, giusto?

 

Sono passati sei mesi e ormai è ufficiale, quell’ipotesi di redenzione è morta. Si è dimostrata falsa. Il Partito repubblicano non può oppure non ha alcuna intenzione di cambiare, anzi non ammette nemmeno il problema. Intende raddoppiare. Non si chiede “cos’è andato storto?” per non infilarsi più nella stessa catena di eventi. Si chiede invece “cos’è andato storto?” per rifare tutto quello che ha fatto e però farlo meglio e – questa volta – prevalere. La vittoria di Biden è il problema, non l’assalto al Congresso. Dal punto di vista dei repubblicani il punto non è che Trump abbia rifiutato di riconoscere la sconfitta e abbia inventato una balla infamante contro i democratici, accusati di avere rubato le elezioni con un complotto incredibile, e abbia anche scatenato la folla per bloccare i passaggi istituzionali che riconoscevano il trasferimento di potere a Biden. Il punto è che la campagna sovversiva di Trump non ha funzionato, perché c’era una serie di ostacoli. La storia dei repubblicani americani in questi mesi è la storia di come stanno demolendo questi ostacoli, così la prossima volta potranno fare daccapo le stesse cose – ma questa volta la strada sarà aperta e vinceranno. 

 

Così, mentre i trumpiani lavorano a questi preparativi alla luce del sole, ci occupiamo dell’Amministrazione Biden come se fosse tornata la normalità. Il fatto che Donald Trump non sia seduto alla Casa Bianca in questo momento non vuol dire che tutte le cose siano tornate al loro posto nella vita degli Stati Uniti. Potrebbe essere soltanto una parentesi di quattro anni che nel 2024 sarà chiusa dal ritorno più agguerrito, più brutale e meglio preparato dei trumpiani. 

 

Vediamo la normalità. Secondo un sondaggio Ipsos/Reuters del 21 maggio, il sessantuno per cento degli elettori repubblicani crede che le elezioni 2020 siano state rubate a Trump. Il cinquantatré per cento crede che Trump sia il vero presidente degli Stati Uniti. La versione ufficiale del Partito repubblicano distribuita a deputati e senatori in caso di interviste è che Joe Biden è il “sitting president”, come se occupasse un posto lasciato vacante per qualche ragione non specificata. Due settimane fa l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, il generale Mike Flynn, è intervenuto a un “raduno di patrioti” in Texas. Un ex marine gli ha chiesto: “Vorrei sapere perché quello che è successo in Myanmar – dove l’esercito è intervenuto dopo le elezioni per rimettere al suo posto un presidente che aveva perso – non può succedere qui” (la setta di QAnon apprezza molto la giunta militare del Myanmar). “Per nessun motivo – ha risposto Flynn – voglio dire, dovrebbe succedere anche qui. Non c’è ragione. E’ giusto” (digressione: a volte nei libri che trattano delle guerre in Iraq e in Afghanistan salta fuori il nome di Flynn, che comandava distaccamenti di forze speciali. Vengono i brividi a sapere che un ufficiale con quelle responsabilità poi diventerà l’idolo di QAnon). Ventotto candidati alle elezioni di metà mandato al Congresso che si terranno l’anno prossimo hanno inserito slogan e simboli di QAnon nelle loro pubblicità elettorali perché pensano che l’affiliazione alla setta non sia un elemento squalificante ma un vantaggio – e questo numero è destinato ad aumentare. Liz Cheney, che aveva la terza carica repubblicana al Congresso ma si era dichiarata a favore dell’impeachment contro Trump per i fatti del 6 gennaio e che considera QAnon una setta pericolosa e quindi rappresenta l’ala del partito che contesta la degenerazione e la violenza, è stata rimpiazzata con un’altra donna, che è allineata a Trump. Il 29 maggio i repubblicani hanno bloccato al Senato la nascita di una commissione d’inchiesta parlamentare sui fatti del 6 gennaio, perché avrebbe riportato l’attenzione su quel giorno e avrebbe svelato informazioni nuove o comunque confermato quelle già a disposizione. Lunedì 11 giugno Reuters ha pubblicato un’inchiesta sulle minacce di morte che continuano ad arrivare dopo tutto questo tempo ai funzionari di alto livello, ma anche ai lavoratori comuni che erano presenti nei seggi di stati americani come la Georgia, l’Arizona e il Michigan, dove Trump ha perso a sorpresa. Sono gli uomini che hanno fatto funzionare le elezioni e ricevono messaggi come: “Tu e la tua famiglia sarete uccisi molto lentamente”; oppure: “Facciamo piani su come uccidervi tutti i giorni”. Il responsabile delle elezioni in una contea in Georgia con 22 anni di esperienza, Richard Barron, ascolta ogni genere di minaccia ed è finito sotto la protezione della polizia dopo che un messaggio annunciava la sua esecuzione per fucilazione. Barron, che ha anche fatto l’osservatore internazionale di elezioni all’estero, dice: “Stiamo scendendo in un tipo di mentalità da terzo mondo, non me lo sarei mai aspettato dal mio paese”. Nel suo ritiro in Florida nel frattempo l’ex presidente Trump dice alle persone attorno a lui di aspettarsi di essere rimesso al suo posto ad agosto, che è una cosa non vera ma eccita il suo seguito. 

 

Prendiamo la legge sul voto nel Texas appena proposta dai repubblicani – e che per ora non è ancora passata perché i democratici sono usciti dall’aula per far mancare il quorum. Non soltanto impone le solite misure di soppressione del voto già viste altrove, come il restringimento del voto via posta e l’abolizione di altre opzioni che facilitavano gli elettori. Limita a due il numero di elettori che possono essere portati a un seggio da un altro cittadino. Rende più facile annullare un voto con la comparazione delle firme, che è un metodo poco affidabile per stabilire l’identità di qualcuno. I funzionari che spediscono una scheda elettorale per votare via posta a qualcuno che non l’ha richiesta saranno puniti con la prigione, mentre i funzionari che negano a un elettore la possibilità di votare non sono punibili. La ratio è chiara: è molto meglio sbagliare dalla parte di chi ostacola il voto di un elettore piuttosto che dalla parte di chi lo facilita. Inoltre impedire la completa libertà di movimento degli osservatori ai seggi diventa reato (i repubblicani avevano mandato migliaia di osservatori pronti a denunciare complotti) e i requisiti richiesti ai giudici per dichiarare un’elezione “fraudolenta” e quindi per annullarla diventano meno impegnativi. La legge è stata scritta con in mente quello che è successo nel novembre 2020, quando i trumpiani volevano assediare centinaia di centri per il voto, denunciare brogli inesistenti e dichiarare nulle le elezioni. Punta ad avere meno elettori ai seggi (soprattutto quelli che non si possono muovere da soli), a rendere più facile sostenere che ci sono stati brogli, a permettere a osservatori repubblicani di agire come vogliono dentro ai seggi e a rendere più spedito l’annullamento da parte dei giudici. A questo punto è sufficiente immaginare come potrebbe funzionare una legge così combinata con un clima di minacce come quello descritto qualche riga fa. Il sistema elettorale americano è più fragile di quello che crediamo e l’ultima volta ha retto alle accuse di brogli e alla pretesa di annullamento grazie alla buona volontà di decine di funzionari e di giudici, anche repubblicani, che hanno agito con lealtà verso l’istituzione del voto e non secondo tribalismi politici. Non è scontato che possa reggere di nuovo, soprattutto se c’è un piano deliberato per cambiare le condizioni. 

 

Da un momento all’altro arriveranno i risultati di un riconteggio dei più di due milioni di voti ordinato dai repubblicani nella contea di Maricopa, in Arizona, quindi uno stato tradizionalmente conservatore che però come la Georgia è stato essenziale nel novembre 2020 per dare la vittoria a Biden. L’operazione è stata affidata a un’azienda privata che si chiama Cyber Ninjas e il cui capo, Doug Logan, è un sostenitore del movimento “Stop the steal” – quindi dei trumpiani che protestano perché pensano che Biden abbia rubato le elezioni. Gli inviati dei giornali mandati a vedere il riconteggio si sono messi le mani nei capelli: la procedura è bizzarra, piena di errori, le procedure cambiano e i lavoratori improvvisano. Sono arrivati al punto di controllare l’eventuale presenza di fibre di bambù sulle schede perché una teoria del complotto vuole che alcuni scatoloni di schede già precompilate siano state importate dalla Corea del sud (del resto un’altra teoria del complotto dice che sono stati gli italiani a modificare il conteggio e hanno penetrato le macchine che registrano i voti con i loro satelliti). Il riconteggio privato è di qualità infima rispetto ai riconteggi statali già effettuati dalle istituzioni dell’Arizona secondo procedure rodate e conosciute. Ma non importa, perché quando finirà e – quasi sicuramente – sarà annunciato che il voto in Arizona è compromesso da gravi irregolarità allora cosa succederà? I repubblicani sosterranno che se il voto è compromesso in Arizona allora potrebbe essere successo dappertutto. Il “sitting president” Biden dovrà difendersi dall’accusa di essere un illegittimo alla Casa Bianca. 

 

Questa settimana sulla rete Fox uno dei commentatori trumpiani più agguerriti, Tucker Carlson, ha cominciato a sostenere la teoria che l’irruzione del 6 gennaio al Congresso sia stata un’operazione dell’Fbi e quindi ha rispolverato uno degli schemi che più eccitano il trumpiano medio, l’inside job, la manipolazione che viene dall’interno. Non è colpa di Trump, è colpa del Deep State (ovvero di quelle istituzioni che tramavano alle spalle del presidente). Come se non bastasse, Carlson ha riproposto anche le parole del presidente russo Vladimir Putin, che in un tentativo evidente di trollare Biden ha definito “prigionieri politici” gli arrestati per i fatti del 6 gennaio. Sono posizioni in contraddizione, ma va bene tutto per spianare la strada di questo Partito repubblicano verso le prossime elezioni. Se a gennaio qualcuno avesse predetto che a giugno le condizioni della politica e del partito sarebbero ancora state a questo livello di irriducibile sudditanza per il movimento Maga, il Make America Great Again di Trump, lo avrebbero accusato di pessimismo. Eppure queste sono. 
 

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)