le elezioni in spagna

A Madrid stravincono i popolari. Pablo Iglesias lascia la politica

Guido De Franceschi

Le elezioni sono state un disastro per Podemos, tanto che il suo leader si è dimesso da tutti gli incarichi. Isabel Díaz Ayuso governerà ancora la Regione, ma con l'appoggio dell'estrema destra di Vox. Un'analisi 

Dalle elezioni regionali di Madrid di ieri – solo amministrative dal punto di vista tecnico, ma di rilievo nazionale per le ripercussioni che avrebbero potuto avere e che in effetti hanno già avuto e ancora avranno – si possono già trarre quattro elementi.

 

Il primo elemento è la grande vittoria del Partito popolare (di centrodestra). Nella Regione di Madrid il Pp gioca in casa, tanto che la governa, senza interruzione, da ventisei anni. Ma, dopo una serie di delusioni elettorali e a soli tre mesi dal loro risultato catastrofico nelle elezioni regionali catalane, per i popolari lo sfiorare il 45 per cento dei voti e l’atterrare non lontanissimo dalla maggioranza assoluta dei seggi, è indubbiamente una grande affermazione.

 

Anzi, il trionfo della presidente uscente della Regione, Isabel Díaz Ayuso, è così rotondo che potrebbe addirittura imbarazzare il leader del Pp, Pablo Casado. Infatti, lo stile outspoken e disinibito della Díaz Ayuso sembra suggerire che la via attraverso cui il Pp può riconquistare il governo spagnolo sia senz’altro l’abbandono di ogni scrupolo di moderazione. Ma non è detto che una simile spregiudicatezza possa ottenere altrettanto successo anche nei feudi più periferici (ed eppure determinanti) del Pp, affezionati a una più paciosa democristianità. D’altra parte, è stata la stessa Díaz Ayuso a presentarsi come un’incarnazione del vivir a la madrileña: un concetto che non è facilissimo da spendere nel resto del paese.

 

Il secondo elemento (che potrebbe essere il primo se, perfino nelle analisi post-elettorali, non fosse buona norma dare ai vincitori il gradino più alto del podio) riguarda la “dibattistizzazione” di Pablo Iglesias. Lui – l’inventore di Podemos, l’ex docente universitario che, ancora assai giovane, aveva creato per la sinistra populista e indignata un contenitore politico capace di raccogliere, convogliandoli sotto una sola sigla, molti movimenti locali (chiamati, nella neolingua podemita, “confluencias”) e di assorbire perfino l’antico Partito comunista spagnolo – lascia la politica.

 

Sì, proprio lui, Iglesias. Il leader della sinistra radicale che, da poco più di un anno, era il vicepremier (fastidioso e ingombrante) del socialista Pedro Sánchez, che guida il primo esecutivo di coalizione della democrazia spagnola, formato da un’alleanza tra Psoe e Podemos che non ha una maggioranza autonoma in Parlamento ma che conta sull’appoggio, alla carta, di un patchwork di altre forze politiche.

 

Qualche settimana fa, Iglesias aveva lasciato la carica di vicepremier proprio per correre come presidente della Regione di Madrid. Podemos, nei sondaggi, galleggiava al limite della soglia di sbarramento del 5 per cento e Iglesias pensava, con la sua presenza come capolista, di ravvivare le braci, non troppo vitali (né a Madrid né nel resto della Spagna), della sinistra movimentista. E comunque al governo si stava forse annoiando.

 

Beh, rinvigorito dalla contrapposizione con l’estrema destra sovranista di Vox, e dopo aver ricevuto minacce di morte anonime e proiettili per posta, Iglesias ha contribuito a polarizzare la campagna elettorale madrilena. D’altra parte, sollecitare la curiosità dei media è una specialità di Iglesias. E infatti, anche questa volta, il leader di Podemos ha ottenuto molta attenzione. Ma poi non ha raccolto altrettanti voti: nel 2019, nelle Regionali di Madrid, Podemos aveva ottenuto il 5,6 per cento dei voti (e 7 seggi), mentre ieri ha preso il 7,2 per cento (e 10 seggi). L’incremento – considerando che due anni fa il partito aveva candidato una sconosciuta e che invece questa volta poteva invece contare sul traino della sua superstar planetaria – è stato così modesto che può essere considerato un disastro. Ieri notte, infatti, Iglesias ha annunciato l’addio alla politica attiva. “Lascio tutti i miei incarichi”, ha detto. “Lascio la politica intesa come politica di partito e nelle istituzioni […]. Continuerò a impegnarmi per il mio paese, ma non sarò un ostacolo per il rinnovamento della leadership che deve svilupparsi nella nostra forza politica”. E ha aggiunto di essersi reso conto di essere diventato un “capro espiatorio”, capace di mobilitare “gli istinti più oscuri e contrari alla democrazia”.

 

Il terzo elemento è la debolezza mostrata, quantomeno nel voto madrileno di ieri, dai tre partiti “minori” del panorama politico nazionale spagnolo.

 

Di Podemos si è già detto. Ma Ciudadanos ha fatto molto peggio. Il movimento centrista, “giovane” e rinnovatore – che era nato in Catalogna in funzione antisecessionista per poi avere successo nel resto della Spagna e soprattutto a Madrid e alla fine impigliarsi in un’ondivaga indecisione (mi si nota di più se mi alleo con la sinistra, se mi alleo con la destra e se sto da solo?) – si era già perso in una nebulosa ideologica incomprensibile. Ora si è definitivamente inabissato: infatti, se nel 2019, nelle Regionali di Madrid, aveva ottenuto il 19,5 per cento dei voti (e 26 seggi), ieri ha ottenuto solo il 3,6 per cento (e nessun seggio).

 

In realtà, anche Vox – ovvero il partito della destra sboccata e ultrapopulista che da anni allaga i dibattiti televisivi, riempie di sé le pagine di opinioni e commenti, sollecita il ripasso di tutti i canti antifascisti, franchisteggia per épater tutti quelli che riesce a épater e avvelena il dibattito politico spagnolo – dopo aver preso il 15 (abbondante) per cento alle ultime elezioni politiche, ieri non è riuscito a raggiungere neppure il 10 per cento in un contesto, quello della Regione di Madrid, che è piuttosto incline, soprattutto quando il vento tira in quella direzione, a votare molto a destra. In Vox sono contenti di questo? Bravi.

Poi, certo, Vox si è rivelato un’altra volta determinante: infatti, Isabel Díaz Ayuso e il Partito popolare, nonostante il loro trionfo, senza l’appoggio dell’estrema destra non potrebbero governare. Ma la leadership di Vox si è affrettata a dire che voterà per l’investitura di Díaz Ayuso senza chiedere di entrare nel governo. In Vox sono contenti di continuare a stare per l’ennesima volta fuori da un governo locale che dipende dal loro appoggio esterno per poter poi berciare liberamente, mentre la sinistra dice che il Pp è ostaggio dei “fascisti” di Vox, che continua a prendere il loro 9-10 per cento. E bravi un’altra volta.

 

Visto che il risultato elettorale del Partito popolare è stato ottimo, che quello di Ciudadanos è stato annichilente, che quello di Podemos è stato pessimo e che quello di Vox è stato abbastanza scarso, si potrebbe dire che il bipartitismo spagnolo stia tornando in grande forma. Peccato solo che i socialisti siano tracollati dal 27,3 per cento (e 37 seggi) al 16,8 per cento (e 24 seggi) e che siano stati raggiunti per numero di eletti, e superati per numero di voti, dalla lista civica Más Madrid. Se (come suggeriscono le indagini demoscopiche) la maggioranza degli elettori di Más Madrid, alle elezioni politiche nazionali, avrebbe votato il Psoe, rimarrebbe valida la considerazione sulla ripresa del bipartitismo.

 

Ma, in ogni caso, a questo punto, bisogna affrontare il quarto elemento di queste elezioni regionali madrilene. E cioè che cosa possa succedere alla sinistra del Partito socialista.

 

La lista civica Más Madrid, in realtà, avrebbe già un suo referente nazionale: Más País. Alle ultime elezioni politiche, questo partito – fondato da quell’Íñigo Errejón che ha a lungo co-diretto Podemos con il suo gemello politico Iglesias, in una diarchia un po’ sbilanciata a vantaggio di quest’ultimo – ha preso solo l’1,4 per cento e due seggi (entrambi, guarda caso, determinati da voti “madrileni”). Ma la lista Más Madrid, oltre che di Más País, è soprattutto figlia dell’esperienza “civica” di sinistra che (allora a trazione Podemos) riuscì a far eleggere Manuela Carmena a sindaco di Madrid, nello stesso anno, il 2015, in cui Ada Colau, con un percorso analogo, diventava sindaco di Barcellona.

 

I tentativi di proiettare quell’esperienza a livello nazionale, come mostrano i risultati asfittici di Más País, si erano presto arenati. Chissà che ora – con la crisi di Podemos, il ritiro dalla scena (ma sarà vero?) di Pablo Iglesias e il risultatone di ieri di Más Madrid, trainato dalla figura della capolista Mónica García – l’“altra sinistra” non riesca però ad assumere una dimensione nazionale. E a creare, quindi, una “cosa” alla sinistra del Psoe che sia capace di attrarre il voto giovane,  informato ma de-ideologizzato, urbano, verde, intellettuale e di reddito medio-alto (o di reddito medio-basso, ma derivante da professioni che farebbero pensare a un reddito medio-alto). Quello stesso voto, cioè, che per qualche anno è stato intercettato da Ciudadanos, ma in quel caso alla destra del Psoe. Un voto che, questa volta, non potrebbe però avere venature di nazionalismo spagnolo.