Prova generale per la parata militare del Giorno della Vittoria a Mosca (foto LaPresse)

La guerra contro la realtà nel racconto di Pomerantsev

Micol Flammini

La caduta dell’Urss e il vuoto ideologico, quella brutta nostalgia che si è trasformata in propaganda. Un libro 

C’è stato un momento, scrive Peter Pomerantsev nel suo ultimo libro “Questa non è propaganda” (Bompiani), in cui la Russia sembrava non lasciarlo più [qui un estratto pubblicato sul Foglio per gentile concessione dell'editore]. Poteva essere a Londra, a New York, ovunque. La Russia lo aveva improvvisamente ammantato, circondato, quasi preso in ostaggio. Si era estesa, non era stato necessario invadere militarmente – certi posti si conquistano meglio senza carri armati – le era bastato allungarsi ideologicamente. Creare delle propaggini di se stessa che arrivassero negli Stati Uniti, in Europa, in Messico, nei Balcani e, per farlo, aveva usato uno strumento molto antico: la propaganda. La propaganda, spiega l’autore nel libro, ha un pregio, non si vede, è impalpabile. La assorbi, “è una radiazione invisibile”, e per questo gli stati non riescono mai ad armarsi o a intervenire in tempo.

         

Peter Pomerantsev è figlio di due dissidenti russi, perseguitati dal Kgb “per aver perseguito il semplice diritto di leggere, scrivere quello che preferivano e di ascoltare quello che volevano”. Il Kgb era onnipresente nelle loro vite – un ufficiale si era presentato anche al loro matrimonio – e il mondo di oggi, pieno di informazioni, di espressioni, di prospettive da cui osservare gli eventi, rappresenta il mondo ideale che i suoi genitori avrebbero desiderato. In questa abbondanza però sono nati i nuovi conflitti, le nuove forme di conquista che hanno portato a metodi più “sottili di sovversione”. La massa è diventata raggiungibilissima, improvvisamente, e gli strumenti di manipolazione si sono moltiplicati. Ma nel suo viaggio sulle tracce della propaganda che va dalle Filippine a Pechino, passando per la Serbia, scopre che questo nuovo interesse per l’informazione non era semplicemente un risvolto della guerra cibernetica, ma celava qualcosa di più vasto: un’ideologia, una visione del mondo di cui bisognava convincere quante più persone possibile. Ecco la nuova propaganda, nata improvvisamente dalla mancanza di censura, dal mondo ideale che i dissidenti, come i suoi genitori, avevano soltanto potuto immaginare. L’informazione era diventata un’arma identitaria che la Russia era stata velocissima a usare. Le motivazioni le spiega bene Gleb Pavlovski, politologo, dissidente in epoca sovietica e per un po’ anche consigliere di Vladimir Putin, fino a quando nel 2011 non venne licenziato. Pavlovski dice a Pomerantsev che la caduta dell’Urss aveva lasciato un vuoto ideologico difficilissimo da colmare. Bisognava creare una fiaba, una storia che attirasse i nuovi elettori, e che convincesse, fuori e dentro alla Russia, che le azioni del Cremlino erano giuste. Bisognava creare dei nemici nuovi per giustificare ogni azione e ogni conflitto e per questo la guerra dell’informazione nel Ventesimo secolo e all’inizio del Ventunesimo era diventata la nuova ossessione degli analisti geopolitici russi.

  

          

   

Racconta Pomerantsev che, dopo aver trascorso dieci anni a Mosca, aveva sentito la necessità di tornare alla svelta a Londra. Era un desiderio improvviso, era andato in Russia per lavorare come autore televisivo – i suoi dieci anni a Mosca sono l’oggetto di un altro suo libro, “Niente è vero tutto è possibile. Avventure nella Russia moderna” (Minimum Fax) – e aveva sentito la necessità di tornare a vivere in un posto in cui “le parole hanno un significato”, dove i fatti erano fatti. Nella realtà fluida della Russia di oggi non gli era più possibile vivere. Tornato a Londra ha sentito echi di quel mondo e di quella “brutta nostalgia”, di quella diffidenza nei confronti del futuro. La propaganda era ovunque, solo che faceva finta di essere altro: “Questa non è propaganda”.

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