La generazione di intellettuali che sostiene la deriva illiberale. Un saggio di Applebaum

Anne Applebaum

I pensatori conservatori di Europa e America sono sempre più divisi tra loro. Potere, soldi e ambizione non spiegano tutto. C’entra anche una visione disperata dell’occidente, e del futuro

Pubblichiamo un’anticipazione di “Twilight of Democracy”, l’ultimo saggio di Anne Applebaum, premio Pulitzer per il suo libro “Gulag”, che sarà pubblicato il 21 luglio nel Regno Unito e negli Stati Uniti, in Italia nei prossimi mesi da Mondadori. Negli Stati Uniti, in Inghilterra e nell’Europa continentale, la democrazia liberale è sotto assedio, e l’autoritarismo è in continua crescita. In “Twilight of Democracy”, l’autrice Anne Applebaum spiega perché la deriva autoritaria ha trovato sostenitori anche tra chi fino a vent’anni fa difendeva il modello occidentale e la sua forza. 


   

“Era l’ora dell’aperitivo, il giorno di apertura del nuovo Congresso a maggioranza repubblicana, e il lungo salone della casa di David Brock a Georgetown, di illuminato dai lampadari, si stava riempiendo di giovani conservatori esuberanti di ritorno dagli eventi sulla Collina”. Questo era l’attacco, nel 1995, di una storia di copertina del New York Times Magazine intitolata “The Counter Counterculture”. L’autore era il compianto James Atlas che, uno a uno, introduceva una serie di personaggi. C’era il giovane David Brooks, allora editorialista del Wall Street Journal. C’era lo stesso Brock, noto all’epoca per le sue indagini feroci sugli affari personali dell’allora presidente Bill Clinton. C’era David Frum, descritto come “un editorialista del Wall Street Journal”, e c’era sua moglie Danielle Crittenden, con la quale ho scritto anni dopo un libro di cucina polacca.

  

 

Negli anni 90 imperava un ottimismo post Guerra fredda, la convinzione che la rivoluzione democratica sarebbe continuata

C’erano dettagli divertenti — costosi ristoranti di Georgetown dove élite conservatrici istruite rovesciavano il loro disprezzo sulle élite liberal istruite — ma il tono dell’articolo non era negativo. Comprendeva anche una parata di altri nomi e brevi profili: Bill Kristol, John Podhoretz, Roger Kimball, Dinesh D’Souza. Al momento della pubblicazione di quell’articolo, conoscevo la maggior parte di quelle persone. Allora lavoravo a Londra per lo Spectator, una rivista politica conservatrice, e il mio rapporto con questo gruppo era quella di un cugino straniero a cui si fa visita di tanto in tanto, che suscita un lieve interesse, ma che non arriva mai al circolo più ristretto. Ho scritto occasionalmente per il Weekly Standard, a cura di Kristol; per il New Criterion, a cura di Kimball; e una volta per l’Independent Women’s Quarterly, poi curato, tra gli altri, da Crittenden. Conoscevo anche, superficialmente, una donna il cui look – una minigonna di pelle di leopardo – era la cosa più notevole della fotografia di copertina della rivista: era Laura Ingraham, che aveva lavorato per il giudice della Corte suprema Clarence Thomas e che poi era diventata avvocato in uno studio legale (…). Nel penultimo paragrafo, Atlas si ritrova, quasi a mezzanotte, “a spasso per le strade del centro di Washington con Brock nella Land Rover verde militare di Ingraham a 60 miglia all’ora in cerca di un bar aperto con la musica di Buckwheat Zydeco dallo stereo”.

    

Come presentatrice di Fox News, la cui carriera è per lo più legata stretta al presidente Donald Trump, Ingraham è ora molto più famosa di quanto non fosse allora. Ha parlato per Trump alla convention repubblicana del 2016; durante la pandemia è tornata alla ribalta ancora una volta, non solo sostenendo il presidente ma spingendolo a “riaprire” il paese con fervore maniacale, accusando di pregiudizi politici coloro che spingevano per maggiore cautela.

   

Le liste degli ospiti redatte dai miei amici negli anni 90 e quelle create da quegli stessi amici alla fine del 2010 erano molto diverse

Tuttavia nelle sue trasmissioni televisive o nei suoi discorsi, ancora ripete la cosa principale cui la associavo negli anni Novanta: la devozione a Ronald Reagan e al reaganismo, la stessa devozione che sarebbe stata condivisa, allora, da tutti i partecipanti del cocktail party di Brock. O forse la devozione nei confronti di Reagan è un po’ troppo specifica. Ciò che realmente teneva insieme quel gruppo e ciò che mi attirava era una specie di ottimismo post Guerra fredda, la convinzione che “avevamo vinto”, che la rivoluzione democratica sarebbe continuata, che dopo il crollo dell’Unione sovietica sarebbero seguite altre cose positive. Questo non era il conservatorismo nostalgico degli inglesi né il nazionalismo di estrema destra che si poteva trovare altrove in Europa, era qualcosa di più vivace, di più americano: un conservatorismo ottimista che non guardava mai indietro. Sebbene esistessero versioni più oscure, nella migliore delle ipotesi questo conservatorismo era energico, riformista e generoso, basato sulla fiducia negli Stati Uniti, sulla convinzione della grandezza della democrazia americana e sull’ambizione di condividerla con il resto del mondo. Ma quel momento si rivelò molto breve; appena iniziato, era quasi finito. Perché invece dell’armonia tra i conservatori americani, la fine della Guerra fredda produsse profonde divisioni e controversie irrisolvibili.

   

E non c’è da meravigliarsi: prima del 1989, gli anticomunisti americani – che vanno dai democratici centristi fino ai confini più estremi del Partito repubblicano – erano uniti dalla loro determinazione a opporsi all’Unione sovietica. Ma il gruppo non era monolitico. Alcuni erano Cold Warriors perché, in quanto diplomatici o pensatori della realpolitik, avevano paura della tradizionale aggressione russa sempre in agguato sotto la propaganda sovietica, si preoccupavano della guerra nucleare e si interessavano all’influenza americana in tutto il mondo. Altri, e io mi includo in questa categoria, pensavano che stessimo combattendo contro il totalitarismo e la dittatura e per la libertà politica e i diritti umani. Altri ancora, abbiamo scoperto, combattevano l’Unione sovietica perché l’ideologia sovietica era espressamente atea e perché credevano che l’America fosse dalla parte di Dio. Quando l’Unione sovietica crollò, si spezzarono anche i legami che avevano tenuto insieme questi diversi anticomunisti.

   

L’ottimismo ha lasciato spazio a una visione nera dell’America che smette di essere eccezionale e guida nel resto del mondo

Questo spostamento tettonico ha richiesto tempo. La portata e le dimensioni non furono immediatamente evidenti. Gli eventi dell’11 settembre probabilmente hanno tenuto insieme il gruppo per molto più tempo di quanto sarebbe accaduto altrimenti. Ma le crepe erano già visibili almeno dai tempi dell’Amministrazione Clinton. Solo due anni dopo la festa del 1995, lo stesso Brock, in un articolo intitolato “Confessioni di un sicario di destra”, ritrattò le sue idee del passato e accusò la destra di “intolleranza intellettuale e compiaciuto pensiero unico”. Brooks si spostò lentamente verso il centro e divenne un editorialista del New York Times che scrive libri su come vivere una vita piena di significato. Frum iniziò a scrivere i discorsi per George W. Bush, poi rimase deluso dalla frangia xenofoba e cospiratrice dei repubblicani, e si staccò completamente dal partito dopo l’elezione di Donald Trump. Kristol seguì la stessa traiettoria, un po’ più tardi. Altri come D’Souza e Kimball sono andati esattamente nella direzione opposta.

   

La mia rottura è arrivata nel 2008, con l’ascesa di Sarah Palin, una proto-Trump, e con l’uso della tortura da parte dell’Amministrazione Bush in Iraq. Scrissi un articolo intitolato “Perché non posso votare per John McCain”, in cui spiegavo come e quanto il partito fosse cambiato. (A rileggerlo, trovo che in realtà quello fosse un grande elogio di McCain. Ma il senatore McCain, che aveva fatto un meraviglioso discorso alla presentazione a Washington del mio libro “Gulag: storia dei campi di concentramento sovietici”, dopo quell’articolo non mi ha mai più parlato). Ma è stato quando Donald Trump è diventato il candidato del Partito repubblicano che ho imparato quanto diversa la mia idea del mondo fosse diventata rispetto ad alcune delle mie precedenti conoscenze. Sulla scia della sua elezione, quel gruppetto di “giovani conservatori” si spezzò di netto a metà.

  

Nel 2017, ventidue anni dopo l’articolo di Atlas, Sam Tanenhaus ha scritto un altro articolo su un’altra festa, questa volta sulla rivista Esquire. Si trattava della festa che i Frum avevano organizzato a casa loro a Washington per la pubblicazione del mio libro sulla grande carestia in Ucraina – “Red Famine: Stalin’s War on Ukraine” – una festa che accoglieva molti rappresentanti di quel che Tanenhaus descriveva come “un gruppo di scrittori sradicati e sfollati, intellettuali ed esperti che, se si fossero radunati a Parigi o a Londra – ma anche a Ottawa – avrebbero potuto ammantarsi del fascino stregato degli emigrati ed esiliati”. Tanenhaus aveva preso in giro con delicatezza questo raduno di “Never Trumpers”, tra le altre cose ridendo degli “antipasti a tema Europa orientale” serviti a una festa per celebrare la pubblicazione di un libro su una carestia, il che era abbastanza giusto. Ma aveva anche sottolineato con tono serio: “Per molti degli ospiti l’ascesa di Trump ha cambiato il vecchio ritornello ‘Può succedere qui’ (la deriva autoritaria, ndr) in qualcosa di più terribile e opprimente: ‘Sta succedendo ora e deve essere fermato’”.

  

Sta sfumando l’idea stessa di conservazione della democrazia americana al grido: “L’America che amiamo non esiste più”

Non tutti i nostri vecchi conoscenti la pensavano allo stesso modo, e infatti non erano tra gli invitati. Le liste degli ospiti redatte dai miei amici negli anni ’90 e quelle create da quegli stessi amici alla fine del 2010 erano molto diverse. Per esempio, c’era una manciata di democratici di centrosinistra. C’erano anche alcuni assenti. Laura Ingraham, per esempio, non c’era, anche se in un’epoca precedente sarei stata felice di averla a una festa organizzata per la pubblicazione di un libro sui crimini sovietici, e lei sarebbe stata felice di venire. Ma dagli anni ’90, i nostri percorsi avevano preso direzioni radicalmente diverse.

 

Ingraham aveva abbandonato la giurisprudenza, si era trasferita nel mondo dei media conservatori e aveva cercato a lungo di ottenere un suo programma televisivo. Nonostante tutti quei primi tentativi fossero falliti, alla fine ottenne un programma radiofonico popolare. Sono stata ospite della trasmissione un paio di volte, una volta dopo l’invasione russa della Georgia, nel 2008. Ascoltando di nuovo la conversazione – la magia di Internet assicura che nessun suono vada mai perso – sono stata colpita da quanto fosse coerente con il conservatorismo ottimista degli anni ’90. Ingraham parlava ancora del potere dell’America di fare del bene, della capacità dell’America di respingere la minaccia russa. Ma stava già cercando a tentoni qualcos’altro. A un certo punto, citava un articolo di Pat Buchanan, uno dei suoi mentori, che considerava inutile qualsiasi relazione americana con la Georgia, un’aspirante democrazia, e lodava invece la Russia, un paese che immaginava essere più “cristiano” del suo.

  

Il riferimento era l’indizio di altri cambiamenti. A un certo punto, negli anni successivi, il suo ottimismo reaganiano scomparve e lentamente si indurì in qualcosa che si può meglio descrivere come una forma di pessimismo apocalittico. Questo può essere ritrovato in gran parte di ciò che dice e scrive oggi: l’America è condannata, l’Europa è condannata, la civiltà occidentale è condannata, e l’immigrazione, il politically correct, il transgenderismo, la cultura, l’establishment, la sinistra, i dems sono responsabili. Parte di ciò che vede è reale. La cosiddetta “cancel culture” su Internet, l’estremismo che a volte divampa nei campus universitari e le esagerate pretese di chi pratica la politica dell’identità sono un problema politico e culturale che richiederà coraggio vero per essere combattuto. Ma non è più così chiaro che lei pensi che queste forme di estremismo di sinistra possano essere combattute usando la normale politica democratica. Nel 2019, Ingraham aveva invitato proprio Buchanan al suo programma e gli aveva posto la domanda direttamente: “La civiltà occidentale, come la intendevamo, è davvero in bilico? Penso che lei potrebbe davvero trovare argomentazioni molto forti sul fatto che si sta rovesciando contro la scogliera”. Come Buchanan, anche lei ha dei dubbi sul fatto che l’America possa o debba svolgere un ruolo nel mondo. E non c’è da stupirsi: se l’America non è eccezionale ma degenerata, perché dovresti aspettarti che ottenga qualcosa al di fuori dei propri confini?

  

Lo stesso senso di sventura colora le opinioni di Ingraham sull’immigrazione. Per molti anni, Ingraham ha, come molti altri nell’universo Fox, descritto gli immigrati clandestini come ladri e assassini, nonostante esistano prove schiaccianti del fatto che gli immigrati commettano in generale meno crimini rispetto a chi nasce in America. Il suo non è un appello comune e ragionevole per chiedere ulteriori restrizioni alla frontiera. Ingraham ha anche invitato il presidente Trump a porre fine non soltanto all’immigrazione clandestina, ma anche all’immigrazione legale, chiamando più di una volta i “grandi cambiamenti demografici” in America “cambiamenti per i quali nessuno di noi ha mai votato, e che alla maggior parte di noi non piacciono”. In alcune parti del paese, ha detto, “sembra che l’America che conosciamo e amiamo non esista più”. Ha finito per rivolgersi direttamente a Trump: “Questa è un’emergenza nazionale, e ora deve chiedere al Congresso di agire. C’è qualcosa che sta scivolando via in questo paese, e non si tratta di razza o etnia. Una volta questa era una concezione condivisa da entrambe le parti: la cittadinanza americana è un privilegio, e come minimo richiede il rispetto dello stato di diritto e la lealtà alla nostra Costituzione”.

 

E se l’America reale, la vera America, sta scomparendo, allora potrebbero essere necessarie misure estreme per salvarla. Nel 2019, Ingraham annuì quando uno dei suoi ospiti, l’avvocato conservatore Joseph diGenova, iniziò a parlare del prossimo conflitto culturale in America: “L’ipotesi che ci sarà un dibattito civile in questo paese per il prossimo futuro è finita per sempre… sarà una guerra totale” – disse – Io faccio due cose, voto e compro pistole”.

  

Quel pessimismo nero, con echi nei movimenti più radicali e allarmisti della sinistra e della destra della storia politica americana, aiuta a spiegare come Ingraham è diventata, molto prima di molti altri, una convinta sostenitrice di Donald Trump. Conosce Trump dagli anni ’90, una volta erano usciti insieme, anche se a quanto pare non è andata bene, lei lo aveva trovato pomposo (“Ha bisogno di due macchine separate, una per sé e una per i capelli”, aveva detto ad alcuni amici che abbiamo in comune). Tuttavia, è stata una delle prime sostenitrici del suo coinvolgimento in politica, gli ha anche permesso di blaterare del birtherism (la tesi di Trump secondo cui Barack Obama non è nato negli Stati Uniti, ndr) nel suo programma. Ha parlato in suo favore alla convention repubblicana, sostenendolo anche prima che il resto del suo partito fosse d’accordo. Ha avuto una corsia preferenziale durante la sua presidenza ed è una delle parecchie persone di Fox che gli parlano regolarmente.

  

L’appoggio tiepido a un presidente come Trump non basta più: devi gridare se vuoi convincere te stesso e gli altri

La sua fiducia in lui, o almeno nella sua causa, ha profondamente modellato la copertura di Ingraham della pandemia da coronavirus nella primavera del 2020. Come gli altri di Fox News, all’inizio ha minimizzato, incolpando i democratici di aver esagerato la portata del virus, definendolo “un nuovo modo per colpire il presidente Trump”. Successivamente si è impegnata nella disinformazione attiva, ignorando scienziati ed esperti e promuovendo pesantemente l’idrossiclorochina prima che fosse testato; lo ha menzionato tre giorni prima che Trump stesso iniziasse a promuoverlo. Ad aprile, si è unita alla strana campagna del presidente contro le politiche di lockdown stabilite dalla sua Amministrazione, incoraggiando i “ribelli” a rivoltarsi contro la quarantena. Uno dei suoi tweet ha rivelato alcune delle sue idee più profonde: “Quanti di quelli che hanno esortato il nostro governo ad aiutare a liberare gli iracheni, i siriani, i curdi, gli afghani, ecc. si impegnano ora a liberare la Virginia, il Minnesota, la California, ecc.?”. L’uso della parola liberazione, l’equivalenza diretta tracciata tra Saddam Hussein, un uomo che ha commesso omicidi di massa, e i governatori americani democraticamente eletti che stavano cercando di proteggere i loro cittadini da un’epidemia: questi non erano i pensieri di qualcuno che ha fiducia nella democrazia americana.

 

Alcuni elementi della traiettoria di Ingraham rimangono misteriosi. Uno è la sua frequente invocazione di valori morali, valori cristiani, valori personali. Durante un discorso del 2007, ha detto a un gruppo a Dallas che “senza virtù non esiste l’America. Senza virtù saremmo governati da tiranni”. Ha quindi fatto un elenco di quelle virtù: “Onore, coraggio, altruismo, sacrificio, duro lavoro, responsabilità personale, rispetto per gli anziani, rispetto per i vulnerabili”. Nessuna di queste virtù può essere attribuita a Donald Trump. Più complicata è la sua partecipazione al disprezzo che il presidente getta contro tutti gli immigrati, e le sue paure riguardo al fatto che l’immigrazione legale abbia minato “l’America che conosciamo e amiamo”. La stessa Ingraham ha tre figli adottivi, tutti immigrati.

 

Non so Ingraham come spieghi a se stessa queste contraddizioni perché quando ho provato a farle domande, non mi ha parlato. Ha risposto a una e-mail e poi è rimasta in silenzio. Ma ci sono degli indizi. Alcuni amici che abbiamo in comune sottolineano che è una convertita al cattolicesimo, una donna profondamente religiosa sopravvissuta a un tumore al seno: ha detto a uno di loro che “l’unico uomo che non mi ha mai deluso è stato Gesù”. La forza di volontà di cui aveva bisogno per sopravvivere nel mondo spietato dei media di destra – specialmente su Fox News, dove le star femminili erano spesso spinte ad andare a letto con i loro capi – non dovrebbe essere sottovalutata. Questa combinazione di esperienze personali dà un alone messianico ad alcune delle sue osservazioni pubbliche. In quello stesso discorso del 2007, parlava della sua conversione religiosa. Se non fosse per la sua fede, ha detto: “Non sarei qui … Probabilmente non sarei viva”. Ecco perché, ha detto, ha combattuto per salvare l’America dai senza Dio: “Se perdiamo la fiducia in Dio, come paese, perdiamo il nostro paese”.

 

La storia di Laura Ingraham, conduttrice trumpiana di Fox, spiega come è cambiato il pensiero di destra in America

Anche l’ambizione professionale, la giustificazione più antica del mondo, fa parte della storia. In parte grazie a Trump e alla sua vicinanza a Trump, Ingraham ha finalmente ottenuto il suo programma televisivo su Fox in prima serata, con uno stipendio altissimo. Ha ottenuto interviste con il presidente in momenti chiave, durante i quali fa soltanto domande accomodanti. (“A proposito, congratulazioni per i sondaggi”, gli disse mentre lo intervistava durante l’anniversario del D-Day). Ma non credo, per qualcuno intelligente come Ingraham, che sia questa la spiegazione completa. Ha condotto un programma radiofonico quando Fox non voleva darle un programma televisivo e credo che tornerà a dirigere uno show radiofonico se il suo programma venisse annullato. Come nel caso di così tante biografie, separare il personale e il politico è una follia.

 

Ci sono alcuni indizi del suo pensiero in altre epoche e altri luoghi. Lo scrittore polacco Jacek Trzynadel ha descritto come ci si sentiva, nella Polonia stalinista, a essere un forte sostenitore del regime e allo stesso tempo provare dubbi su di esso. “Stavo urlando da una tribuna durante una riunione universitaria a Breslavia e contemporaneamente mi sono sentito prendere dal panico al pensiero di gridare. (...) Mi sono detto che stavo cercando di convincere [la folla] urlando, ma in realtà stavo cercando di convincere me stesso ”. Per alcune persone, la forte difesa di Trump aiuta a nascondere il profondo dubbio e persino la vergogna che provano per il loro sostegno a Trump. Non è sufficiente esprimere la tiepida approvazione per un presidente che sta corrompendo la Casa Bianca e sta distruggendo le alleanze americane e infliggendo una catastrofe economica al paese: devi gridare se vuoi convincere te stesso e gli altri. Devi esagerare i tuoi sentimenti se vuoi renderli credibili.

 

Ma la risposta potrebbe anche trovarsi, semplicemente, nella profondità della disperazione di Ingraham. L’America di oggi, come la vede lei, è un luogo oscuro e da incubo in cui Dio parla solo a un numero esiguo di persone, dove l’idealismo è morto, dove si stanno avvicinando la guerra civile e la violenza, dove i politici eletti democraticamente non sono migliori dei dittatori e degli assassini di massa stranieri, dove l’“élite” sguazza nella decadenza, nello scompiglio, nella morte. L’America del presente, come la vede lei, e come la vedono tanti altri, è un luogo dove le università insegnano alle persone a odiare il loro paese, dove le vittime vengono celebrate più degli eroi, dove i valori più vecchi sono stati scartati.

 

Ogni prezzo dovrebbe essere pagato, qualsiasi crimine dovrebbe essere perdonato, qualsiasi oltraggio dovrebbe essere ignorato se questo è quello che serve per riavere la vera America, la vecchia America.

  

(traduzione di Micol Flammini)


  

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