A Hong Kong continuano le proteste contro la legge cinese sulla sicurezza (foto LaPresse)

È il momento della pressione internazionale per l'autonomia di Hong Kong

Giulia Pompili

Il presidente della commissione Esteri del Senato, Vito Petrocelli, dice che la Cina può fare quel che vuole

Roma. L’Assemblea nazionale del popolo, come previsto, ha approvato giovedì la nuova legge sulla sicurezza nazionale da applicare alla regione autonoma di Hong Kong. Nell’ultimo giorno delle Due sessioni, il momento cerimoniale più importante della vita politica di Pechino, la nuova normativa sull’ex colonia inglese è stata la notizia principale sia sui media cinesi sia sui media internazionali – nonostante le poche, secche parole con cui ha commentato l’approvazione il premier Li Keqiang nella conferenza stampa fiume che ha chiuso la giornata politica. Sull’autonomia di Hong Kong si sta giocando una delle partite più importanti di questa specie di nuova Guerra fredda tra Washington e Pechino. La decisione del dipartimento di stato americano di notificare al Congresso la fine dell’autonomia della regione, ventiquattr’ore prima del primo via libera da parte dei funzionari cinesi, ha avuto il valore di un avvertimento. Per ora si parla molto di reazioni eventuali da parte dell’America – sanzioni per violazione dei diritti umani, revoca dello status speciale di Hong Kong – ma non si è passati ai fatti. Perché in realtà la norma non solo non è entrata in vigore, ma nelle prossime settimane potrebbe cambiare, alleggerirsi, modificarsi. Il testo, di cui giovedì si sono potuti leggere i primi dettagli, adesso passa al Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo, poi al comitato di Hong Kong che si occupa di gestire la Basic Law, poi ci sarà la promulgazione formale della chief executive, il capo del governo locale, Carrie Lam. Anche a sentire gli attivisti di Hong Kong gli spazi di manovra per cambiare qualcosa della controversa legge sulla sicurezza ci sono, ma serve soprattutto l’aiuto dalla comunità internazionale affinché questo avvenga. E non è detto che le minacce di Donald Trump siano davvero costruttive, perché l’America, con la Cina, gioca su molti tavoli contemporaneamente e bisogna capire quali saranno, di volta in volta, le priorità di Washington (e della campagna elettorale).

 

 

E’ vero che Hong Kong non sarà mai più la stessa, ma non lo era più già dal 2019, quando il patto sociale tra cittadini e governo, tra cittadini e forze di polizia, si è rotto. Se la legge sulla sicurezza di Pechino fosse approvata così com’è, però, la lunga mano del Partito comunista potrebbe arrivare ovunque: l’attivismo potrebbe diventare illegale, così come tutte le attività considerate “secessioniste o sediziose”. In caso di violazione delle norme sulla sicurezza i giudici potranno chiedere l’arresto in carcere. E poi, la cosa che più si teme a Hong Kong, le agenzie di sicurezza di Pechino potrebbero essere autorizzate ad aprire dei distaccamenti sul territorio dell’ex colonia inglese. Nella versione del Partito, ovviamente, la sicurezza nazionale “è come l’aria”, cioè serve per far sopravvivere tutti, sia i cittadini di Hong Kong sia quelli cinesi. E proprio per questo giovedì è stata data molta importanza a una norma contenuta nella legge che autorizza la Cina a prendere “contromisure” contro le interferenze di paesi stranieri sugli affari di Hong Kong.

 

Giovedì diversi paesi hanno iniziato a far montare la pressione contro Pechino. Per esempio il Giappone, che ha un rapporto privilegiato, da sempre, con il porto profumato, ha convocato al ministero degli Esteri l’ambasciatore cinese a Tokyo per manifestare la propria preoccupazione. Poco dopo il portavoce del ministero degli Esteri, in una dichiarazione ufficiale, ha fatto sapere di seguire con attenzione l’evoluzione della situazione, anche insieme agli altri paesi partner. “La decisione della Cina di imporre una nuova legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong è in diretto conflitto con i suoi obblighi internazionali secondo i principi della Dichiarazione congiunta sino-britannica legalmente vincolante, depositata alle Nazioni Unite”, si legge nel primo comunicato congiunto di America, Australia, Canada e Regno Unito sulla questione Hong Kong diffuso giovedì. E’ la risposta del Five Eye (meno la Nuova Zelanda) alle mire assertive di Pechino.

 

 

A mancare all’appello è ancora l’Unione europea: oltre alle dichiarazioni di prassi sull’importanza del principio “un paese, due sistemi”, una riunione della diplomazia è stata convocata per oggi per “discutere dei rapporti tra Ue e Cina”. Il problema è che ogni paese europeo ha i suoi interessi particolari con Pechino, e difficilmente vuole emergere come il leader di una crociata anticinese. Sappiamo bene perché: chi si mette contro le politiche di Pechino subisce poi la vendetta economica. E quindi perfino Francia e Germania, solitamente molto dure su certi argomenti, non hanno ancora posizioni esplicite sulla legge sulla sicurezza.

 

A distinguersi, in senso inverso però, è sempre l’Italia: giovedì il presidente della commissione Esteri del Senato, Vito Petrocelli, del Movimento cinque stelle e quindi del partito che più ha dimostrato di essere in linea con Pechino, ha detto che la Cina ha tutto il diritto di fare quello che gli pare per mantenere l’ordine all’interno dei suoi confini.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.