Militari delle Forze speciali in addestramento a Creta nel 2018 – foto tratta dalla pagina Facebook U.S. Special Operations Command Europe

I mentori delle nostre forze speciali e la guerriglia contro i fanatici

Daniele Raineri

In Iraq pochi italiani fanno una guerra discreta all’Isis, quando scorre il sangue c’è un sussulto di realtà

Roma. Dice una fonte che si occupa in modo specifico di sicurezza in Iraq che fino a pochi mesi fa nella stessa area a sud di Kirkuk dove i soldati delle Forze speciali italiane sono stati attaccati c’erano i commandos della Marina francese a uscire in missione assieme alle forze curde. Erano impegnati a ripulire la zona dai guerriglieri dello Stato islamico, facevano raid notturni contro le cellule del gruppo, guidavano i raid aerei della Coalizione. È possibile che le forze speciali italiane della Task Force 44 abbiano preso il posto dei francesi in quel settore. Sono impegnate in Iraq da tempo e con molta discrezione. Nel giugno 2015 un gruppo di incursori del Reggimento d’assalto Col Moschin – che assieme agli incursori di Marina formano la Task Force 44 – fu inviato nella regione di al Anbar, che allora era molto pericolosa, nella base di Taqaddum. Meno di due anni più tardi ancora gli uomini del Col Moschin furono avvistati poco a sud di Mosul durante la battaglia per liberare la città dallo Stato islamico. Entrambi sono posti da prima linea, se di prima linea si può parlare in una guerra al terrorismo dove non ci sono fronti convenzionali. I comunicati rari del ministero della Difesa usano il verbo inglese “mentoring”, come a dire che gli uomini delle forze speciali italiane fanno da istruttori alle forze irachene e che quindi la loro missione sarebbe poco più di un proseguimento fuori, sul campo, dell’addestramento impartito agli iracheni dentro alle basi.

  

In pratica però il “campo” è l’Iraq, dove lo Stato islamico ha perduto il controllo del territorio ma si sta riorganizzando per diventare di nuovo pericoloso. E gli uomini a cui gli italiani fanno da mentori sono veterani che hanno sulle spalle anni di combattimenti violenti e sono impegnati in attività reali contro nemici reali. In breve, le forze speciali della Coalizione – e quindi anche quelle italiane – fanno quello che fanno le forze speciali e si occupano di rafforzare le operazioni per sradicare lo Stato islamico dalle zone che ancora infesta in Iraq.

 

Una digressione sul nome Col Moschin, che ancora oggi è poco conosciuto: è un colle del massiccio del Grappa che fu teatro di un assalto da parte degli arditi contro i soldati austriaci nel 1918 e l’azione fu così eroica da dare il nome al Reggimento d’assalto, che degli arditi si considera l’erede. Assieme ai soldati del Col Moschin in Iraq ci sono anche gli incursori di Marina – e i soldati feriti appartengono a entrambe le unità. Una fonte da Baghdad spiega che i militari avevano superato a piedi il punto in cui era nascosta la trappola esplosiva, ma alla fine dell’operazione durante il ritorno verso i loro mezzi sono saliti sul cassone di un pick-up delle forze curde, abbastanza pesante da attivare l’ordigno.

 

Lo Stato islamico ha rivendicato l’attacco come uno dei tanti che compie a un ritmo infinitamente più basso rispetto agli anni del Califfato, ma che è ancora sostenuto. Soltanto che non ci facciamo caso, a meno che non ci finiscano in mezzo degli italiani. Finora nel 2019 lo Stato islamico ha fatto 96 attacchi con trappole esplosive a Kirkuk. Nel 2018 gli attacchi dello stesso tipo sempre a Kirkuk erano stati 118. Come si vede siamo più o meno nella media considerato che siamo quasi a metà novembre (i dati sono del ricercatore specializzato Joel Wing). La zona dell’attacco è un vasto territorio pieno di anfratti e quasi appenninico, tanto per capirsi, che va avanti per decine di chilometri nella parte sud della provincia di Kirkuk. E’ stato scelto dagli uomini dello Stato islamico come rifugio – fin dai tempi della presenza americana, più di dieci anni fa – e per continuare la guerriglia. Per snidarli sono necessari lunghi raid, un po’ sui mezzi e un po’ a piedi, che di solito danno come risultato la scoperta di qualche nascondiglio e di qualche deposito di armi e munizioni, e di rado incontri diretti. I fanatici preferiscono evitare lo scontro, quando viene buio si avvicinano alle strade, fanno posti di blocco, rapimenti, uccisioni e poi si ritirano. Spesso piazzano trappole esplosive sui percorsi che sanno saranno usati dalle forze militari che danno loro la caccia. Come è successo domenica.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)