Un disastro in arrivo
A Baghdad la piazza non molla, ma l'Iran prepara la repressione
Teheran non può permettersi questa incredibile onda anti iraniana nel paese vassallo. Ci si aspetta ferocia in piazza. E cominciano le sparizioni
Roma. La situazione in Iraq oggi è molto più pericolosa rispetto agli anni dello Stato islamico. In questi giorni nelle piazze più importanti del paese c’è una protesta popolare di proporzioni enormi e perlopiù pacifica che punta a sostituire la classe politica, considerata troppo compromessa con l’Iran. Ma quella classe politica è costretta a non ascoltare le richieste e a rifiutare il negoziato con i manifestanti perché l’Iran si oppone. Anzi, di fatto l’Iran ha preso il comando della situazione e ha mandato il generale Qassem Suleimani, comandante delle operazioni all’estero delle Guardie della rivoluzione, a guidare la repressione. Quando il 4 ottobre, il giorno dopo le proteste più grandi, i capi delle forze di sicurezza irachena si sono riuniti nella Zona verde di Baghdad per decidere cosa fare assieme con il primo ministro Adil Abdul Mahdi, hanno trovato al posto del primo ministro proprio Suleimani. E quando una settimana fa i politici iracheni hanno deciso che il primo ministro Abdul Mahdi si doveva dimettere per dare un segnale alla piazza – e Abdul Mahdi era d’accordo – Suleimani è intervenuto dietro le quinte per ordinare che il primo ministro restasse al suo posto – gli è bastato dire al capo di un partito sciita che prende ordini dall’Iran di non aderire all’accordo. Che è la dimostrazione pratica di quello che dicono gli iracheni in piazza: siamo stanchi di una classe politica che non ascolta noi e si adegua alle decisioni prese dall’Iran. Ed è la ragione che spiega perché nelle piazze dell’Iraq vediamo scene che fino a settembre sarebbero state impensabili, come prese da un film di fantascienza: masse di iracheni che in pubblico battono le scarpe contro grandi ritratti di Suleimani e dell’ayatollah Khamenei. Sono passati undici anni da quando un giornalista iracheno tirò una scarpa contro il presidente americano George W. Bush (a proposito: nel 2018 si è fatto eleggere al Parlamento iracheno, ora si trova fra i politici), ora le scarpe toccano agli iraniani.
Da una parte c’è una protesta popolare che per ora non si affievolisce e ha coinvolto in modo trasversale la società irachena – dai religiosi sciiti come il carismatico ayatollah Sistani che nel 2014 annunciò la riscossa popolare contro lo Stato islamico agli studenti dei licei e delle università per arrivare al patriarca caldeo Louis Sako, che ieri è sceso anche lui a piazza Tahrir per dire ai manifestanti parole molto belle: “Siamo venuti per esprimere la nostra ammirazione a questi giovani che hanno rotto la barriera settaria e riguadagnato l’identità nazionale irachena, dimostrando che la patria è preziosa. La cosa che i politici non potevano fare” (fonte Agensir). Ricordiamocene, quando si dirà che i manifestanti sono tutti terroristi come succede quando si parla di Siria. Dall’altra parte c’è l’Iran che non intende mollare la presa. Il regime di Teheran difende lo status quo perché non vuole perdere il governo vassallo. E Suleimani ha già detto agli iracheni “ora vi facciamo vedere come risolviamo noi questi problemi”. I cecchini hanno sparato dai tetti e hanno ucciso più di duecento persone. Il numero degli arresti, anche dentro gli ospedali, è superiore a mille ma non ci sono cifre ufficiali. Milizie travestite da forze speciali hanno fatto irruzione negli studi di sei televisioni. Tutti i presidi delle scuole irachene sono stati licenziati perché non sono riusciti a trattenere gli studenti che hanno manifestato. E domenica un’attivista molto conosciuta che prestava cure mediche in piazza, Saba al Mahdawi, è stata rapita. Se lo schema antidemocratico sarà applicato, seguiranno molte altre sparizioni.