Justin Trudeau (foto LaPresse)

Un liberale sulla difensiva finisce stropicciato. L'ultima sfida di Trudeau

Paola Peduzzi

Il Canada al voto. Il premier vuole la riconferma, ma un campagna elettorale mesta forse non basterà a cancellare scandali ed inchieste

Obama ha fatto un endorsement sfacciatissimo a Justin Trudeau celebrando la forza della leadership progressista (e quindi anche un po’ se stesso) e qualcuno ha detto: che atto inusuale, che impudenza, che ingerenza. Sì, ingerenza: siamo alle prese con un presidente americano che congela aiuti militari a un paese straniero per costringerlo a farsi dare materiale compromettente su un rivale politico, e l’ingerenza è un tweet di un ex presidente a un premier affine, politicamente e personalmente, in difficoltà con la sua campagna elettorale (in Canada si vota lunedì). Questa polemicuccia sull’ingerenza è la sintesi di un fenomeno più grande che ha contribuito a stropicciare un simbolo potente del liberalismo qual è il premier canadese Justin Trudeau (il resto l’ha fatto per conto suo, e oggi rischia di non riuscire a ottenere il secondo mandato): prendete la blackface. Esce una foto con Trudeau pittato di nero – che è una cosa insultante – e poi ne escono altre due: scandalo. Lui reagisce goffo, dice che non sa quante foto ci possano essere lasciando presumere che avesse l’hobby della blackface, e da quel momento – era settembre – rimane sulla difensiva, sempre. Le foto (quelle tre, non ne sono uscite altre) risalgono a molti anni fa, ma l’alibi della gioventù non ha avuto quella rilevanza che, per dire, ha avuto nel caso di un giudice della Corte Suprema americana che da ragazzo molestava ragazze ubriacandosi con gli amici. Le foto sono insultanti, ma afferrare le donne “by the pussy”, come ama fare il presidente americano (lo stesso delle ingerenze) su sua stessa ammissione lo è altrettanto, anzi di più essendo nel frattempo una trentina le donne che dicono di essere state davvero afferrate in quel modo da lui. Eppure ora non riusciamo a guardare Trudeau senza pensare che sia un ipocrita opportunista, o almeno non ci riescono i canadesi che nel 2015 lo portarono a una vittoria straordinaria – partiva terzo, e di parecchio, all’inizio della campagna – e che oggi invece sono dubbiosi e infastiditi. Un liberale quelle cose non le fa: la trappola delle aspettative alte o del doppio standard è tutta qui.

 

Poi certo, ci sono gli errori di Trudeau il premier canadese, il politico di un paese del G7, non soltanto il simbolo del politicamente corretto liberale occidentale, tutto glamour, fascino kennediano con le calze a righe e yoga sui tavoli dei vertici internazionali. Trudeau ha fatto una campagna elettorale mesta, dicendo: votatemi perché lo avete già fatto quattro anni fa, come se la magia di allora – e il mondo di allora – fosse di per sé un’arma vincente. Gli scandali ci sono stati, corruzione e favoreggiamenti, c’è ancora l’inchiesta in corso e non sembra promettere assoluzioni, mentre parte del suo entourage e dei suoi ministri si è dovuta dimettere. Per di più il rivale, il conservatore Andrew Scheer che è pari a lui nei consensi (32-33 per cento, oscillante), è sveglio, capace, educato e persino più giovane di Trudeau. Un quasi alter ego che taglia le tasse: l’avversario peggiore che potesse capitare. Il pareggio può sembrare eccitante a noi abituati a contese polarizzate e di cordoni sanitari, una sinistra normale contro una destra normale che lusso indicibile, ma per i canadesi non lo è, i toni sono dolenti e ogni reportage fa trapelare un’infelicità malinconica soprattutto dei giovani che nel 2015 accompagnarono Trudeau al successo.

 

Eppure questo è il Canada di Trudeau che ha accolto più immigrati dell’America in termini assoluti (e ha 37 milioni di abitanti contro i 327 dell’America), che ha fatto scappare Trump dal G7 perché il presidente americano si è offeso a sentirsi trattare da protezionista, che difende il libero scambio alleandosi con l’Europa contro l’America che affossa il Naft , che manda truppe in Iraq, che espelle l’ambasciatore saudita per l’omicidio del giornalista Khashoggi, che ribadisce i valori liberali e occidentali a ogni occasione di memoria storica, che litiga con la Cina denunciando le sue “detenzioni arbitrarie” a fini politici, che dà casa a una perseguitata come la pachistana Asia Bibi. Si fa presto a stropicciare i leader liberali, poi però ti mancano.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi