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La Brexit e il rischio "stockpiling" che preoccupa gli imprenditori europei a Londra

Gregorio Sorgi

Il terrore delle attività commerciali nel Regno Unito è l’accumulo di merci nei magazzini in caso di No deal

Londra. Gli imprenditori europei in Gran Bretagna usano la stessa parola per raccontare i loro timori sulla Brexit: “stockpiling”. Significa l’accumulo di merci nei magazzini per avere delle scorte in caso di un’uscita senza accordo il 31 ottobre, che resta uno scenario possibile nonostante la Camera dei Comuni abbia approvato una legge per vietarlo. L’Ue ha respinto l’accordo proposto dal premier Boris Johnson, e in settimana la Cancelliera tedesca Angela Merkel avrebbe detto secondo fonti di Downing Street che “è molto improbabile trovare un’intesa” entro fine mese. La paura del No deal ha comportato un aumento degli importi di cibo e medicine dai paesi europei, come era già successo nelle settimane precedenti alla prima scadenza lo scorso 29 marzo. “E’ un periodo di vacche grasse”, commenta il responsabile dello stoccaggio di un’azienda che vende prodotti italiani a ristoranti e minimarket in Gran Bretagna: “Stiamo aumentando le nostre scorte ma a un certo punto dobbiamo fermarci perché il magazzino ha uno spazio limitato. Dunque non riusciamo a soddisfare la domanda dei nostri clienti, che è in grande crescita”. I pacchi di pasta e i biscotti, che hanno una scadenza a lungo termine, sono particolarmente richiesti dai negozianti londinesi tanto che l’azienda ha raddoppiato la frequenza degli arrivi dall’Italia. Solitamente fornisce circa 10 casse di merce a settimana a ogni minimarket ma negli ultimi tempi la cifra è aumentata a 48. “Le persone comuni hanno aumentato le scorte di cibo a causa dell’incertezza di un’uscita brusca dall’Ue”, spiega Mario Sorbo di Nife is Life, un supermercato online che vende prodotti italiani: “Abbiamo fatto dei grandi sconti a ridosso del 29 marzo, aumentando di tre volte le vendite quotidiane. E’ ancora presto per valutare se ci sarà lo stesso effetto in vista del 31 ottobre”. Nelle ultime settimane le scorte di cibo di Nife is Life sono raddoppiate e hanno riempito il magazzino di 800 metri quadri.

 

 

In caso di No Deal gli imprenditori che importano dall’Europa dovranno pagare i dazi su alcuni prodotti essenziali come la carne, le scarpe, i vestiti e le automobili. La tariffa esterna comune dell’Ue si applicherà sul 60 per cento delle esportazioni britanniche in Europa secondo un documento pubblicato in settimana dal governo, e avrà degli “effetti notevoli” sul settore agroalimentare. Per commerciare con l’Ue sarà necessario richiedere al governo inglese un numero identificativo, l’Eori number, che è già stato assegnato a 162 aziende negli ultimi dieci mesi. Tuttavia, saranno soprattutto le piccole e medie imprese a subire le conseguenze del mancato accordo. “I grandi gruppi sono abituati a commerciare fuori dall’Unione europea e hanno un ufficio doganale interno, quindi soffriranno meno la transizione”, spiega Antonio Pellizzetti, dirigente di Codognotto, una multinazionale che si occupa di trasporto merci: “Le piccole e medie imprese hanno meno esperienza con i dazi e meno risorse per fare ‘stockpiling’. Per i grandi gruppi è più facile riempire i magazzini e affittare nuovi spazi per conservare il cibo”.

 

Uno dei più importanti fast food inglesi, Greggs, ha annunciato di avere acquistato grandi scorte di tonno, pancetta e salsiccia per evitare contraccolpi in caso di No deal. Oltre ai dazi, le aziende che importano dall’Europa temono un aumento nei costi di trasporto e un calo ulteriore della sterlina a causa della Brexit. I controlli sulle merci alla frontiera rischiano di rallentare il flusso del trasporto aggiungendo un ulteriore costo per le aziende, specialmente quelle che importano prodotti freschi con una scadenza a breve termine. Questo finirà per penalizzare i consumatori che, secondo le stime, dovranno pagare in media 20 sterline in più per ogni 100 chilogrammi di cheddar e 1.500 sterline in più per una macchina straniera. “In caso di No deal prevedo un aumento medio nei prezzi dei prodotti alimentari dal 10 fino al 20 per cento, e questo rischia di distruggere i rapporti commerciali tra la Gran Bretagna e alcuni suoi partner storici come Italia, Germania e Francia”, spiega Pellizzetti: “Se la pasta italiana costa troppo i consumatori potrebbe scegliere un prodotto più economico fatto in Cina, e questo potenzialmente può distruggere alcune aziende. Per ora gli affari stanno andando bene, ma è solo la quiete prima della tempesta”.

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