Boris Johnson (foto LaPresse)

Che ne sarà di noi? La spada di Damocle della Brexit sull'italian food

Sonia Ricci

Il divorzio dall'Unione europea rischia di essere un colpo mortale per ristoratori, chef, cuochi, camerieri, imprenditori e distributori italiani che lavorano nel Regno Unito. Ecco come si stanno preparando

“Che ne sarà di noi?”. Il claim dell'omonimo film del Muccino maggiore pronunciato con l'inconfondibile zeppola dal Muccino minore che diventò un meme per gli adolescenti di qualche lustro fa, oggi è una roba serissima per le migliaia di italiani che hanno fatto di pizza e pasta (senza mandolino) la chiave della loro fortuna in Gran Bretagna. La Brexit rischia di tramutare in perfida l'Albione che ristoratori, chef, cuochi, imprenditori e distributori hanno conosciuto finora come amante suadente e generosa. “Tanti ragazzi italiani hanno rinunciato ad emigrare perché la mancata informazione sul futuro ha fatto venire non pochi scrupoli”. Simone Moroni è managing director di The Italian Job, azienda che gestisce pub con birre artigianali italiane (foto sotto). Quatto locali in attività a Londra. Cinque milioni di euro di fatturato all’anno. Ma le cifre, seppur considerevoli, non mettono a riparo da quello che potrà succedere da qui a qualche mese. 

 

 

Non è da solo ad attendere, a sperare che non venga stravolto l’ordine presente, a cercare di capire come si muoveranno i governi e come l’Inghilterra riuscirà a superare il rischio dell’isolamento. Serpeggiano fiducia, immobilismo e una buona dose di emotività. Dazi commerciali, crescita del costo del lavoro, limitazione dei migranti economici e carenza di manodopera italiana. Sono gli addendi della Brexit visti dall’ampio settore della ristorazione italiana nel Regno Unito. Che, una volta tirata la riga, daranno il risultato finale dell’operazione dell’uscita dell’isola dall’Unione europea. “Finora non abbiamo percepito grandi cambiamenti – dice Matteo Aloe, patron delle pizzerie Radio Alice, che oggi conta quattro indirizzi nella capitale britannica – ma ho timore che con il tempo gli immigrati italiani avranno paura a venire qui. E non credo che gli inglesi vogliano fare i pizzaioli”.

 

Il divorzio, si sa, è una cosa che richiede tempo, soprattutto se la fine di un matrimonio durato quasi 30 anni non è consensuale. Perché se è vero che ufficialmente la Gran Bretagna è uscita dalla scena europea alla mezzanotte del primo febbraio scorso, è altrettanto certo che gli accordi futuri sono ancora tutti da scrivere. È un processo lungo che, se tutto filerà liscio, si concluderà con accordi che conterranno i danni per entrambe le parti entro il 31 dicembre 2020. Di conseguenza la ristorazione italiana in Uk temporeggia e cerca di non farsi prendere all’emotività. Alcuni guardano con occhi intimoriti i prossimi passi dell’uscita, altri non si pronunciano sul futuro prossimo, ma già vedono alterazioni evidenti date dall’incertezza generata dal referendum. “Un primo impatto c’è stato nel 2016, subito dopo il voto per il 'Leave'. Un impatto più che altro emotivo”, spiega Michele Mortari. Insieme al fratello Edoardo è proprietario di Arancina, due pizzerie al taglio e food truck a Londra. “Improvvisamente è diventato molto più difficile ricercare personale italiano”, aggiunge. “Non c’è un motivo reale, perché finora non hanno messo barriere”. E’ una paura “emotiva”. E non è il solo a sostenerlo. Anche secondo Moroni “c’è stato un calo evidente, che ha portato un aumento degli stipendi per i professionisti. I pizzaioli italiani, ad esempio, scarseggiano e quindi se li vuoi devi pagarli di più”. L’aumento percepito è stato del 20%.

 

Michele Mortari (a sinistra) e il fratello Edoardo


 

I numeri degli italiani in Gran Bretagna - stimati in circa 700 mila in tutto il paese - parlano. L’Istat ha registrato nel 2016 il maggior numero di italiani approdati sull'isola, 25 mila. Un boom nell’anno del referendum, come è possibile? La cifra è stata ingrossata dalla corsa a registrarsi in Uk di chi già ci viveva da tempo e non aveva mai ritenuto necessario farlo, dopo che la botola dell’incertezza gli si è spalancata sotto i piedi. Dall’anno successivo è arrivato il calo: quasi 5 mila trasferimenti in meno, pur contando i residenti ritardatari. A rinunciare a fare le valigie pure coloro che negli anni passati partivano per ambire a posizioni all’interno del settore della ristorazione. Chef, capi partita, pasticceri, camerieri, sommelier, pizzaioli, direttori di sala, manager e barman. 

 

Lo spauracchio della definitiva Brexit ha anche altri risvolti. Incide, infatti, anche sul nostro ‘made in’ agroalimentare. Gli italiani hanno cambiato modo di riempire i loro magazzini. E gli esercenti locali hanno iniziato ad aver timore che possibili dazi alzino i prezzi, comportandosi di conseguenza. “Negli ultimi mesi - spiega un manager di una grande aziende di distribuzione italiana, che preferisce rimanere anonimo - gli off licence, ovvero i piccoli negozi, gestiti spesso da stranieri, hanno iniziato ad acquistato interi pallet di prodotti italiani. Stanno facendo magazzino di prodotti secchi con date di scadenza più lunghe. Sono mossi dal timore per un possibile aumento dei prezzi dal prossimo anno”. Diverso, invece, l’approccio dei connazionali. “I ristoranti italiani hanno iniziato ad ordinare solo il necessario, sono più parsimoniosi”. Perché? L’idea è quella di “non spingere troppo”, perché non tutti hanno la certezza di “riuscire a far quadrare i conti anche nel post Brexit”. Non è statistica ma sono comportamenti che richiamano chiaramente il leitmotiv mucciniano: “Che ne sarà di noi?”.

 

Dal prossimo anno le cose si faranno più difficili. Sarà quasi impossibile trasferirsi per cercare un lavoro saltuario. Il governo di Boris Johnson ha già fatto un passo verso il futuro che fa paura: le nuove regole per gestire i flussi migratori, che entreranno in vigore nel 2021, sono pronte. Le norme, ca va sans dire, saranno molto più restrittive per i lavoratori poco qualificati. Servirà uno sponsor (come negli Stati Uniti) o un’offerta di lavoro in mano. Intanto, però, gli italiani già presenti possono mettersi al riparo registrandosi entro giugno 2021 alla piattaforma “Settlement Scheme”.

 


“Non mi vogliono più?” si domanda scherzando Federico Preti, sous chef al Maya di Briatore, con esperienze all’enoteca Pinchiorri a Firenze, a Le Gavroche a Londra e a Sartoria, ristorante di un altro italiano in terra britannica Francesco Mazzei. “Noi cuochi siamo abituati a cambiare - spiega mentre parla dei paletti che pianteranno sull’immigrazione - quindi se qui non mi vogliono cambio, nessun rimpianto, non mi spavento”. Eppure c’è chi, andando controcorrente, vive con meno timore il taglio del traguardo di Brexit. “Qualsiasi cosa accadrà non ci troveranno impreparati”, racconta Andrea Rasca, padron e ideatore del Mercato metropolitano (foto sotto). Due sedi nella capitale, quasi 23 milioni di fatturato. “In pochi anni il nostro business è esploso”. A gennaio le entrate hanno segnato più 40%. “Paghiamo bene, siamo un movimento alimentare, Brexit o no cambia poco”. Certo, la sua è un’attività diversa dalle altre. I due mercati ospitano banchi con diverse specialità internazionali, delle quali solo il 20% è firmato dall’Italia. “Perché ci facciamo intimorire? - aggiunge - Negli Stati Uniti ci sono tanti italiani che fanno una buona ristorazione, eppure le regole sono molto stringenti”. Se in futuro i prodotti italiani costeranno di più, “vorrà dire che compreremo quelli inglesi di qualità. Al di là di quello che si crede, ce ne sono”.

 

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