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La nuova frontiera tech della discriminazione razziale e religiosa in Cina

Pasquale Annicchino

Trump a New York presenzia a un evento sulla libertà religiosa. Le mosse degli Stati Uniti e il punto sulle discriminazioni e le persecuzioni di Pechino contro le minoranze religiose. Il caso degli uiguri

Lo “stato nazionale di sorveglianza” cinese è ormai una questione di primaria importanza per gli Stati Uniti. Lo è per la guerra commerciale in corso, soprattutto nel settore dei prodotti ad alta tecnologia, ma lo è anche per numerosi gruppi della società civile statunitense che si fanno portavoce, presso il governo di Washington, delle discriminazioni e delle persecuzioni che subiscono alcune minoranze religiose, primi fra tutti gli uiguri (etnia turcofona di religione islamica), sottoposti a una sorveglianza costante da parte del governo di Pechino. Le stime più recenti parlano di circa un milione di uiguri rinchiusi in “campi di rieducazione” in Cina.

 

In un rapporto di questo mese la US Commission on International Religious Freedom ricorda l’istallazione di milioni di telecamere in ogni zona del paese per controllare le aree pubbliche, i programmi speciali di sorveglianza Sharp Eyes e Skynet, la creazione di un database nazionale con il Dna dei cittadini cinesi, la cura particolare dedicata ai residenti dello Xinjiang (in maggioranza uiguri) di cui sono stati raccolti, dopo accurati esami medici, tracce ematiche, immagine dell’iride, impronte digitali. Gli esperti consultati per la redazione del rapporto hanno confermato che quello in corso in Cina è forse l’esempio più avanzato di utilizzazione delle tecnologie dell’intelligenza artificiale a fini di profilazione razziale e religiosa.

 

È anche sulla scorta di queste riflessioni che, qualche giorno fa, il Senato ha approvato l’Uighur Human Rights Policy Act of 2019, una legge, per ora unica al mondo, che imporrebbe al governo degli Stati Uniti di monitorare le eventuali violazioni dei diritti delle minoranze e punirne i responsabili con apposite sanzioni, anche ai sensi del Global Magnistsky Act che tanto ha fatto tremare gli oligarchi russi sottoposti a sanzioni individuali. È inoltre prevista la nomina di un coordinatore speciale per lo Xinjiang presso il Dipartimento di Stato e un’azione del Fbi rispetto alla eventuali minacce e violazioni di diritti commesse nei confronti di cittadini statunitensi di origine uigura, nel contesto di una politica cinese che il testo stesso della legge statunitense definisce “orwelliana”. Si aggiunge a queste misure una serie di attività di monitoraggio e produzione di rapporti che trova fondamento in altre leggi vigenti negli Stati Uniti in materia di tutela delle minoranze religiose e che hanno ispirato anche numerosi paesi europei.

 

La cosa non è passata inosservata in Cina. Il governo di Pechino ha infatti dichiarato di “opporsi fermamente” al provvedimento e che esso costituisce una “flagrante interferenza negli affari interni della Cina”. La legge ora attende il passaggio alla Camera dei rappresentanti, dove dovrebbe essere approvata senza problemi vista l’unanimità riscontrata al Senato. Nel giugno del 2019 è stato inoltre presentato, sia alla Camera dei rappresentati sia al Senato, il China Technology Transfer Control Act che, se approvato, imporrebbe pesanti restrizioni all’export di tecnologia utilizzata nelle attività di sorveglianza da parte del governo cinese. È anche questo il contesto in cui inquadrare la scelta di Donald Trump di recarsi oggi a New York per parlare a un evento sulla libertà religiosa.

 

Già a luglio di quest’anno, durante il “Ministerial meeting” organizzato al Dipartimento di Stato, alcuni Paesi avevano ufficialmente messo nero su bianco la condanna dell’abuso degli strumenti tecnologici nella sorveglianza delle minoranze, soprattutto quelle religiose. L’Italia, purtroppo, non risulta fra i Paesi firmatari. Magari il ministro Di Maio potrebbe farci sapere cosa ne pensa, anche perché la portavoce del ministro degli esteri cinese ha sottolineato che l’iniziativa statunitense è figlia di una “mentalità da guerra fredda”. Noi da che parte stiamo caro ministro?