Afghanistan, soldati americani nello Shorab Military Camp di Lashkar Gah (LaPresse)

Gli impulsi di Trump in politica estera e le correzioni dell'ultimo minuto

Daniele Raineri

Anche con i talebani il presidente americano scopre la realtà brutale: non ha una soluzione migliore degli altri

Roma. Il presidente americano Donald Trump procede in politica estera guidato da una convinzione fortissima: che tutti i suoi predecessori fossero troppo stupidi per prendere la decisione giusta oppure che fossero trattenuti dal prenderla per motivi inconfessabili. È un tratto tipico del populismo, di cui lui è il campione americano: la soluzione sarebbe facile e a portata di mano, se soltanto i politici non si mettessero di mezzo. Sabato notte però ancora una volta Trump ha fatto in pubblico i conti con la realtà brutale, proprio come i suoi predecessori li avevano fatti prima di lui. Ha detto di avere annullato quasi all’ultimo momento un incontro segreto con alcuni leader talebani a Camp David, luogo storico della diplomazia americana, dove domenica avrebbe voluto dare il tocco finale ai dieci mesi di negoziati intrapresi dal suo inviato speciale Zalmay Khalilzad.

  

Il presidente vuole ritirare i soldati americani dall’Afghanistan il prima possibile e in cambio chiede ai talebani di tentare una coabitazione pacifica con il governo afghano e di prendersi carico della lotta contro i terroristi islamisti (l’America vuole assegnare ai talebani i compiti di antiterrorismo in Afghanistan: anche soltanto a scriverlo suona poco realistico). E’ chiaro cosa cercasse di fare Trump, che adora i colpi di scena diplomatici: un incontro al vertice con i talebani e un accordo di pace – che era già pronto, approvato da entrambe le parti durante il nono e per ora ultimo incontro a Doha, in Qatar – che sarebbe stato firmato su territorio americano due giorni prima del diciottesimo anniversario dell’11 settembre, l’evento da cui è iniziato il conflitto. Sarebbe diventato il presidente che è riuscito a mettere fine alla guerra più lunga della storia americana. Sarebbe stato inquadrato assieme ai talebani con i barboni, i turbanti scuri e le vesti bianche, un altro souvenir dal mondo pericoloso che lui affronta in nome dei suoi elettori – come aveva già fatto con il dittatore nordcoreano in tuta nera.

  

Il tutto prima del grande colpo a cui non ha ancora rinunciato: un nuovo accordo con gli iraniani, “molto meglio di quello di Obama”.

  

E invece con due tweet ha annunciato di avere cancellato tutto perché giovedì i talebani avevano ucciso un soldato americano in Afghanistan con un attacco suicida.

  

La giustificazione non regge molto. I talebani avevano ammazzato un soldato americano anche il 29 agosto, quindi due giorni prima dell’approvazione dell’accordo a Doha. E avevano ucciso altri due soldati americani il 21 settembre. E un altro a luglio. Su quelli si poteva soprassedere e sull’ultimo no? In realtà c’è un altro tema che è sempre fortissimo dentro all’Amministrazione Trump, quello del doppio governo, ovvero del tentativo da parte di molti di correggere o mitigare gli impulsi del presidente. Il governo americano si comporta come se due fazioni si contendessero le leve del potere. In questo caso le fazioni sono esplicite. Da una parte ci sono il segretario di stato Mike Pompeo e l’inviato speciale Khalilzad e lo stesso Trump con il suo desiderio immenso di fare qualcosa di storico. Dall’altra ci sono il consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, e alcuni consiglieri esterni che remano contro l’accordo, come il senatore Lindsey Graham e l’ex comandante dei soldati americani in Afghanistan e in Iraq, David Petraeus. Quelli che si oppongono lo fanno con parole semplici: possiamo davvero fidarci dei talebani? Vogliono soltanto che ce ne andiamo, sanno che nessun presidente americano manderà di nuovo soldati se non in casi straordinari perché i costi politici sono altissimi, poi saranno liberi di proseguire la loro campagna per riprendersi il paese. In quanto al ruolo di antiterrorismo dei talebani, chi ci crede è un illuso. L’attentato di giovedì ha fatto tentennare Trump: e se nel momento del trionfo diplomatico faccio la figura di quello che si è fatto fregare?

   

Così l’America ora procede in politica estera sospesa tra gli impulsi del presidente Trump e le correzioni successive. Un ibrido che produce situazioni bizzarre. Da tre giorni sono cominciate le pattuglie miste di soldati americani e soldati turchi in Siria, lungo il confine che era controllato dai curdi. In teoria i duemila soldati americani avrebbero dovuto ritirarsi tutti entro gennaio – lo diceva un tweet di metà dicembre 2018 – ma poi qualcuno deve aver convinto Trump a un compromesso. Così in Siria restano mille soldati americani e se arrivano più soldati in un luogo perché c’è bisogno allora altrettanti devono subito varcare il confine e andare in Iraq, per mantenere l’illusione che il contingente sia sempre soltanto di mille uomini. L’Iran ha appena annunciato che alzerà il livello delle violazioni dell’accordo sul nucleare, da cui Trump ha deciso di ritirarsi – ma si aspetta l’Assemblea generale delle Nazioni Unite tra pochi giorni per vedere se ci saranno aperture. E la Corea del nord, che doveva essere la storia di successo della diplomazia di rottura del presidente per ora non ha fatto nessun passo reale nella direzione che le era stata chiesta. Incontri storici finché se ne vuole, ma i risultati scarseggiano.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)