foto LaPresse

La chiesa e la Brexit

Gregorio Sorgi

L’arcivescovo di Canterbury nella baraonda brexitarola è una voce calma e severa contro il no-deal

Roma. Tra i tanti che si sono mobilitati per evitare l’uscita senza accordo della Gran Bretagna dall’Ue, è entrato a sorpresa anche l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, a cui è stato chiesto da un gruppo di parlamentari europeisti di presiedere un’assemblea di cittadini per ascoltare le loro preoccupazioni riguardo alla Brexit. Il più alto rappresentante della chiesa anglicana ha risposto che potrebbe accettare a patto che il forum non diventi un “cavallo di Troia” per rinviare o scongiurare l’uscita del Regno Unito. Nonostante questa precisazione, Welby è stato duramente attaccato dal mondo euroscettico, tra cui i deputati conservatori Iain Duncan Smith e Mark Francois, che lo hanno accusato di rendersi responsabile di un’operazione politica per sabotare il piano del governo per uscire senza accordo. Pur essendo un alto prelato, Welby è considerato un alleato degli europeisti e un fine stratega politico, e per questo l’ala più oltranzista dei Tory teme un suo possibile coinvolgimento nell’ora più delicata. I deputati dell’opposizione martedì hanno annunciato di volere legiferare contro la Brexit a Westminster, spingendo il premier Boris Johnson a chiedere di sospendere le attività del Parlamento per evitare imprevisti. L’iniziativa di Welby, che non può essere fermata in alcun modo, è un’ulteriore variabile inattesa che può complicare i piani del governo.

 

L’arcivescovo di Canterbury è un prodotto dell’establishment britannico: ha studiato a Eton, il prestigioso college frequentato anche da Boris Johnson, e poi a Cambridge, entrando in seminario solo nel 1987 dopo una lunga e proficua carriera nel settore petrolifero. L’arcivescovo ha ereditato il rapporto con la politica dalla famiglia, dato che sua madre, Jane Porter, futura baronessa, è stata la storica segretaria di Winston Churchill e il suo prozio, Rab Butler, viene ricordato come uno dei più grandi statisti conservatori del secondo dopoguerra.

  

L’arcivescovo, che ha ammesso di avere votato remain nel referendum del 2016, è diventato col passare del tempo un attore politico, accusato di essere un fiancheggiatore degli europeisti o dei laburisti a seconda delle circostanze. Nel settembre 2017 partecipò a un congresso sindacale in cui fece un discorso appassionato contro “il modello economico fallito” della Gran Bretagna, che genera miseria e diseguaglianze, e attaccò anche le aziende del Big Tech, colpevoli di evadere tasse nei paesi in cui operano. Di fronte agli attacchi dei conservatori che lo accusavano di avere avallato la retorica corbiniana, Welby si è difeso spiegando di “non essere un politico, ma di parlare sulla base delle scritture cristiane”. “Parlo di politica perché Gesù parlava di politica, siamo tutti coinvolti dalla politica”, ha ribadito Welby qualche mese dopo per giustificare le sue accuse ai “populisti truffatori” durante un discorso a Natale.

 

Il prelato non si è tirato indietro nemmeno sulla Brexit, azzardando delle previsioni che si sono poi rivelate visionarie. Welby interviene alla Camera dei Lord, dove ha un seggio assieme ad altri 25 alti prelati (i cosiddetti Lord Spiritual) che rappresentano la Chiesa anglicana in Parlamento. L’arcivescovo è stato tra i primi a capire che la Brexit si sarebbe rivelata una questione così divisiva al punto da richiedere una soluzione non convenzionale. Nel giugno 2017, pochi giorni prima delle elezioni generali, annunciò di volere creare una grande coalizione presieduta da “un parlamentare esperto” per gestire la Brexit, e dopo il fallimento elettorale di Theresa May rinnovò gli inviti a trovare una maggioranza ampia in Parlamento. Nessuno lo prese sul serio, ma nei mesi successivi la May ha imparato suo malgrado che non è possibile approvare un accordo in Parlamento senza cercare i voti degli altri partiti. Qualche settimana fa, i leader dell’opposizione hanno riconosciuto che il governo di unità nazionale è uno dei pochi strumenti a disposizione per evitare il no deal, riconoscendo ancora una volta il grande fiuto politico dell’arcivescovo Welby.