Con la Brexit sono in ballo interessi immani finanziari industriali tecnologici, prospettive di sviluppo nazionale (foto LaPresse)

In Europa la guerra è un affare per Tolstoj

Giuliano Ferrara

Quante sono le occasioni di conflitto che mercati e stato di diritto e burocrazia evitano? Brexit, Catalogna, Grecia, Austria. L’eccesso normativo dei salumieri europei ha qualcosa di vantaggioso, e vale la pena proteggerlo come un tesoro

Eric Zemmour, preoccupato che gli tolgano la Francia da sotto il culo con una sostituzione etnica, caso possibile ma improbabile, dice sempre che l’Europa ha sostituito l’anima con il mercato e lo stato di diritto. In effetti non è il solo a lamentare il carattere mercantile e burocratico-giuridico della costruzione europea. Anche il federalismo democratico e un tanto napoleonico se ne lamenta. E anch’io non mi sento tanto bene, a pensare ai codicilli, agli scambi incessanti, alla monetizzazione unica, alla legislazione per direttive, all’antidemocrazia costituita dal tratto pertinente delle istituzioni di Bruxelles e, in parte, di Strasburgo. Mi è però venuto in mente, pensando alla Brexit e circonvicini, a quante sono le occasioni di conflitto, cioè di guerra, che mercati e stato di diritto e burocrazia evitano. Tante. 

  

Ora pare che i francesi vogliano tirargliela agli inglesi. Niente proroga incondizionata, e la data della scadenza la si sceglie insieme, rompini che non siete altro. Non simpatico, ma comprensibile. La loro idea di Europa è compatta, quanto è fluida quella dei cugini inglesi. I tedeschi peraltro stanno in mezzo, a loro non dispiace il calmiere del mercantilismo anglosassone. Con la Brexit sono in ballo interessi immani finanziari industriali tecnologici, prospettive di sviluppo nazionale, perfino l’approvvigionamento regolare dei medicinali, il traffico di merci e persone, intere popolazioni allogene ostaggio dei nipotini di Elisabetta II, e inglesi dappertutto sparsi nel continente, isolato felicemente dal Channel e forse dal backstop nel giro, chissà, di pochi giorni. Questione di identità, roba “de souche”, di radici nazionali, di storia (è del 1604 il cavillo giurisprudenziale dello speaker dei Comuni per impedire un terzo voto sull’accordo May-Bruxelles), e sono cose con cui non si scherza. Ma le diplomazie e le classi dirigenti che discutono il distacco sono imbrigliate nelle regole dello stato di diritto e nelle convenienze di mercato e nelle procedure burocratiche, tre elementi che scongiurano allo stato la possibilità di un conflitto in cui  si misurino gli arsenali nucleari, i gurkha nepalesi (brigate british il cui presupposto esistenziale è di sapere uccidere un uomo a morsi), la Légion étrangère, la Luftwaffe oppure la forza demografica del bacino delle popolazioni mobilitabili, l’estensione territoriale, il dominio dei mari e altre bellurie. Tutto è invece affidato a un ceto di forti e allegri bevitori (Juncker), di formidabili commissari (Barnier, il negoziatore del deal che Boris Johnson non vuole trangugiare) e alla dea bendata della politica britannica, Mrs May, oltre che alle Corti, ai trattati e altre brutture. Questo rassicura. Anche nel caso non improbabile che la maionese impazzisca, resta, nei presupposti almeno, una maionese. Cucina, spesa e mercato, non palestra, guantoni, armi e botte. Il paese che esce, se esca e come lo sa solo il Dio che salva la Regina, non era unito in moneta, non era unito in Schengen, e tuttavia dovrebbe uscire a mezzo di un trauma mediato dallo stato di diritto, dalle procedure e dal mercato. 

 

I giudizi sulla Grecia sono difformi: c’è chi pensa che l’abbia ammazzata la Germania, chi pensa che l’abbiano spolpata i partiti della bella vita, chi pensa che sia tutta colpa di Tsipras, chi di Varoufakis, chi pensa poi che la Grecia in realtà sia viva, con perdite immense e tormentosi tornanti attraversati, ma ormai in grado di badare a sé stessa e di tornare a scambiare, procedurare, giuridicizzare i suoi rapporti con gli altri, compresi i tedeschi ai quali sarebbe richiesto un famoso risarcimento in ritardo per i danni di un’altra Germania nell’ultima guerra. Chissà. Sta di fatto che a forza di passettini burocratici e finanziari ora è mezzo risolto anche il problema della Macedonia del nord, per non dire altro, e nessuna guerra è scoppiata nel fianco sudorientale dell’Europa. I Balcani intanto furono sistemati da un energico intervento americano, oltre che dalla resistenza eroica delle popolazioni e degli umanitari alla sporca guerra, e ora Karadzic è all’ergastolo europrogrammato, e il quadro della risistemazione della più famosa occasione di guerra, con il consenso dei russi, addirittura, è di tipo europeo, roba da stato di diritto.  

 

Vogliamo parlare della Catalogna? Dell’Ucraina, che essendo ai margini un pezzo di guerra guerreggiata la soffre, ma up to a point per via degli accordi di Minsk? Vogliamo parlare delle relazioni italo-austriache? Doppia cittadinanza per i tirolesi e altre minuzie che non sono minuzie? Di quelle italo-francesi tra Domodossola, i cantieri navali e l’alleanza di stato con i gilet gialli versione black bloc? Dovunque ci si volti si vede che lo stato di diritto, l’eccesso normativo, l’Europa dei salumieri hanno qualcosa di vantaggioso. Si dice sempre: e poi non si arriva alla fine del mese; si dice che ci sono cinque milioni di poveri, ma anche quattro oppure sei, dipende dal numero di domande per il reddito; si aggiunge: i nostri figli staranno peggio di noi. Va bene ma la guerra la leggeranno nel romanzo di Tolstoj, che è un vantaggio sicuro. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.