Viktor Orbán (foto LaPresse)

Quanti media controllo oggi? Il piano di Orbán e la sfacciataggine che poi si paga

Paola Peduzzi

La fondazione delle testate legate al premier ungherese

Milano. Controllare i media è un’ossessione antica e naturale, chiunque si occupi di governare un paese – o un’azienda, o un social media – ambisce ad azzerare critiche e polemiche, a leggere resoconti che siano come carezze. Non si può piacere a tutti, è un concetto difficile da digerire, e l’istinto a imporre amore a ogni costo – mi dovete credere, mi dovete amare – fa parte della politica così come della vita, ma poi ci sono le regole, le convenzioni, finanche le leggi, che impediscono eccessi e forzature: lo chiamiamo pluralismo, ed è prezioso. In Ungheria questo tesoro è stato dissipato, non tanto nella quantità – c’è un’effervescenza mediatica enorme – quanto nella qualità, e questo sperpero non è figlio di noncuranza o di incapacità di reazione: è il frutto di un progetto portato avanti nel tempo e con costanza dal premier ungherese, quel Viktor Orbán che è citato dalla sfumatura verde del governo italiano come un modello cui ispirarsi (la sfumatura gialla coltiva passioni molto meno avvincenti, il Venezuela per dire, ed è una predilezione un po’ bizzarra: se dittatore dev’essere, che sia almeno di successo).

 

E’ notizia di questi giorni che un gruppo di aziende mediatiche ungheresi, circa una decina, ha deciso di “donare” le testate di proprietà – circa 400, tra emittenti tv, stampa e siti web – a una fondazione, la Central European Press and Media Foundation, presieduta da Gabor Liszkay, che è un personaggio rilevante e con una storia che racconta molto della trasformazione dell’Ungheria. Liszkay lavorava con Lajos Simicska, che è stato uno dei magnati più vicino a Orbán fino al 2015: quando questo sodalizio si interrompe, Simicska interpreta alla perfezione la parte dell’ex, diventa il più accanito oppositore del premier, sostiene alle ultime elezioni i nazionalisti di Jobbik, ma dopo la sconfitta si arrende, abbandona la scena e lascia la sua azienda mediatica, Hir Tv. A raccogliere la sua eredità è proprio Gabor Liszkay, che tra i due aveva scelto il premier, e dopo aver guidato Mediaworks, un’altra azienda mediatica pro Orbán, oggi si mette alla guida della fondazione che vuole affiliare la maggioranza dei media del paese (il processo di donazione è ancora in corso, ma l’ente che deve dare l’approvazione finale è presieduto da un altro fedelissimo di Orbán). Uno degli obiettivi della fondazione è “aiutare la sopravvivenza della cultura scritta ungherese” e, in una lettera al New York Times, uno dei membri del board della fondazione, Miklos Szantho, dice che anche se l’agenda politica del gruppo è di destra, “la priorità è preservare un bilanciamento dei media” nel paese, e aggiunge che se c’è una predominanza di opinioni legate al governo è perché “la sinistra, dal 2010, ha perso la sua capacità di inventare e comunicare visioni o idee strategiche sia per l’Ungheria sia per se stessa, e non ha alimentato il proprio hinterland intellettuale”. La sinistra si è persa, la destra invece ha riconosciuto alla perfezione il suo posto, ha imposto la propria visione e ha contribuito a soffocare quella degli altri: i media ostili sono stati via via o chiusi o privati di fondi o “convertiti”. Anche lo spostamento dell’università di proprietà di Soros – scade oggi il termine per un eventuale ripensamento del governo – rientra nello stesso progetto, ma a furia di demonizzare Soros e i sorosiani (la categoria comprende chiunque non abbia detto o meglio urlato che Soros è il male assoluto) Budapest perde un centro d’eccellenza nell’istruzione.

 

Se può consolare, la fondazione dei media è soltanto una mossa simbolica e dimostrativa: si tratta di testate che già erano orbaniane, il fatto che ora siano tutte insieme le rende al limite più riconoscibili. Ma questa sfacciataggine racconta anche un’altra storia: Orbán è un pragmatico, è uno che, pur sotto attacco, non fa uscire il suo partito dal Ppe europeo, sa che fuori dalla famiglia sarebbe meno protetto. Un’azione sui media tanto palese rivela che un po’ di questo pragmatismo l’ha smarrito, o comunque che conta sul fatto che l’Unione europea non faccia nulla. Ed è qui che entriamo in gioco noi, gli europeisti che al disamore sono abituati, che l’amore non lo vogliono imporre (sperano di riceverlo semmai), ma le regole, quelle sì, si rispettano.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi