Le forze speciali francesi soccorrono una vittima dell'attentato al Bataclan di Parigi, la sera del 13 novembre 2015 (foto Reuters)

La forza discreta dell'occidente

Daniele Raineri

Così i francesi hanno eliminato uno a uno i sette capi terroristi che ordinarono la strage del Bataclan

I servizi segreti francesi in due anni hanno trovato tutti e sette i capi dello Stato islamico che erano coinvolti nella preparazione del massacro di Parigi del 13 novembre 2015 e – indirettamente o direttamente – li hanno uccisi uno per uno. Eppure la notte della strage gli uomini della sicurezza erano partiti da una situazione di disorganizzazione grave, erano spiazzati da quello che vedevano (come tutto il resto del paese, ma è questo in fondo che si chiede ai servizi d’informazione: di essere meglio del resto del paese in queste circostanze). Tre gruppi di fuoco dello Stato islamico che giravano nelle strade della capitale per uccidere civili, un attentatore suicida con corpetto esplosivo fuori dallo stadio dove il presidente Hollande era seduto a guardare una partita della Nazionale – fu portato via tredici minuti dopo – una strage di ostaggi dentro una sala per concerti. Nel 2015 i servizi francesi non avevano abbastanza traduttori in arabo per interrogare i sospetti e sbobinare le intercettazioni, non avevano le conoscenze specifiche sullo Stato islamico che gli servivano – e infatti i primi rapporti sono pieni di errori e di imprecisioni – non avevano infiltrati o comunque fonti solide che potessero passare informazioni da dentro al territorio controllato dai nemici.

 

Dopo la strage di Monaco nel 1972, il primo ministro israeliano Golda Meir autorizzò l’uccisione di tutti
i responsabili

Gli uomini dell’intelligence avevano avuto tempo a disposizione perché più di un anno prima, nel settembre 2014, il gruppo terroristico aveva pubblicato su internet un appello “a tutti i musulmani del mondo” affinché lanciassero operazioni di rappresaglia a caso contro i civili che vivono nei paesi occidentali per vendicare i raid aerei contro il territorio che controllavano, e nella lista dei nemici da colpire c’erano i francesi. E due anni prima c’era stata la sequenza di uccisioni nel sud della Francia compiuta da un giovane di origini algerine che loro qualche mese prima avevano tentato di reclutare come informatore, Mohammed Merah. Pure quella vicenda non era stata abbastanza per smuovere l’apparato.

 

Nei due anni successivi al massacro di Parigi c’è stato un adattamento molto veloce, i francesi hanno capito di avere dei buchi strutturali, li hanno colmati, hanno spedito uomini in Siria e in Iraq a reclutare informatori e a raccogliere dati, hanno creato un’alleanza con altri servizi segreti e con gente locale. Il Mossad israeliano – che tiene sotto sorveglianza tutto quello che accade nel settore mediorientale e quindi anche le operazioni contro i gruppi estremisti – dice che i servizi francesi hanno finito di decapitare la struttura dello Stato islamico che organizzava attentati in Europa con un’operazione compiuta un anno fa, nel novembre 2017. In pratica si è trattato di una riedizione europea di “Ira di Dio”, la campagna di rappresaglia israeliana che il primo ministro Golda Meir ordinò dopo la strage di atleti di Israele compiuta dai terroristi di Settembre Nero durante le Olimpiadi di Monaco del 1972. Meir in quell’occasione fece stilare una lista di persone che erano coinvolte nell’attentato e che dovevano essere uccise – non si conosce il numero, forse venti, forse di più fino trentacinque, nel film di Steven Spielberg sono “undici”. Lo scopo della campagna era lanciare un avvertimento molto duro, questi attacchi non resteranno impuniti, ci saranno conseguenze e non soltanto per le prime file ma anche per tutti quelli che si credono al sicuro perché vivono sparsi in Europa.

 

Secondo il Mossad, in due anni
i francesi hanno decapitato la struttura dello Stato islamico in Siria che progettava attacchi in Europa

Gli informatori, dicevamo. Nell’ottobre 2016, meno di un anno dopo la strage, il Foglio parlò con un uomo della sicurezza curda seduto al tavolo di una sala colazioni deserta all’ultimo piano di un hotel di Erbil, nel nord dell’Iraq. L’uomo lavorava come referente di una rete di contatti sparsa nei paraggi di Mosul e dentro alla città, che allora era ancora sotto il controllo dello Stato islamico. Agli abitanti era vietato usare telefoni cellulari, pena la morte per esecuzione in piazza con l’accusa di spionaggio, ma molti di loro conservavano i loro telefoni chiusi dentro buste di plastica sotterrate in posti segreti. Quando pensavano di avere informazioni interessanti, disseppellivano i telefoni, inserivano la scheda e la batteria, raggiungevano qualche punto riparato al limitare della città dove la connessione funzionava ancora e mandavano messaggi. Il curdo mostrò al Foglio lo schermo del suo telefono e il profilo Facebook che aveva aperto per lavorare, con la foto innocua di un fiore – come spesso fanno le donne nei paesi musulmani di stretta osservanza, per non mettere il volto, foto di fiori o di bimbi o di cascate… – e le chat aperte con i suoi contatti. Lo Stato islamico funziona bene come gruppo terroristico clandestino, ma quando si fa governo e tenta di amministrare un territorio per forza di cose deve rinunciare a una parte della sua ossessione per la segretezza. I locali abitavano davanti ai quartier generali dello Stato islamico, vedevano i suv con i vetri oscurati arrivare e partire, vedevano le guardie del corpo smontare dai veicoli, capivano quando c’era qualcuno di importante. Le informazioni quasi in diretta passavano ai servizi in attesa nelle retrovie – e la città di Erbil per un paio di anni è stata la capitale delle retrovie della guerra. Un distaccamento dei servizi francesi coabitava con i curdi dentro a un settore inaccessibile dell’aeroporto militare di Erbil, dirimpetto all’aeroporto internazionale, e lavorava su quella mole di dati. Se le informazioni erano buone diventavano quella che in gergo si chiama “actionable intelligence”, intelligence su cui si può agire, dove per “agire” s’intende mandare un drone americano a bombardare il veicolo di un capo dello Stato islamico o la casa dove sta tenendo una riunione.

 

Nel 2015 i servizi francesi erano
in uno stato di impreparazione totale. Eppure i segnali d’allarme non mancavano

Ci sono almeno due differenze tra la campagna dopo Monaco e quella occidentale dopo Parigi. A differenza che nel ’72 e anni seguenti, i francesi nel 2016 e 2017 non hanno ucciso direttamente i loro bersagli, perché alcuni di loro avevano passaporto francese e c’era da evitare tutta una serie di problemi legali. Tuttavia, li hanno accompagnati alla loro morte. Hanno passato le informazioni e la posizione dei loro ricercati alle forze irachene e soprattutto agli americani impegnati in una campagna di bombardamenti non stop. Il risultato è lo stesso ottenuto dalle squadre israeliane. Ogni mese quando gli specialisti americani finivano la quota assegnata di missioni con i droni chiedevano ai francesi se avessero informazioni, aggiornamenti o bersagli da colpire e quelli gli consegnavano direttamente le coordinate che tenevano già pronte. Del resto, i servizi segreti americani avevano ormai spiegato con chiarezza ai colleghi europei di considerare la Francia come una linea di confine nella guerra contro lo Stato islamico, nel senso che se non si riusciva a fermare l’ondata di estremismo lì allora presto sarebbe stato un problema anche dell’America, e quindi si facevano carico senza problemi delle missioni di eliminazione. La politica in questa campagna non ha contato molto, cambiavano governi e uomini e schieramenti politici, è tutto partito con François Hollande e Barack Obama ed è finito con Emmanuel Macron e Donald Trump. La linea è stata sempre la stessa. In alcuni casi i francesi tardarono apposta a passare ai droni americani le coordinate di un loro bersaglio perché studiavano se ci fosse ancora una connessione con cellule attive in Europa. Volevano essere sicuri che i pianificatori dello Stato islamico in Siria e in Iraq non avessero più gente su cui contare dentro alle città europee.

  

E’ il caso per esempio di Boubaker el Hakim, un tunisino che dalla Siria ha partecipato all’organizzazione degli attacchi a Parigi e che conosceva le coordinate di un nascondiglio in Francia dove erano sistemati alcuni fucili d’assalto kalashnikov. I servizi francesi hanno aspettato invano che El Hakim trovasse volontari che volessero usarli in qualche attentato. Quando si sono resi conto che il loro sorvegliato, sempre a caccia di reclute, era rimasto a corto di uomini e non aveva più nessuno a cui passare il segreto del nascondiglio, hanno chiamato gli americani. Il tunisino stava guidando una Kia bianca vicino allo stadio nazionale di Raqqa, che da tempo era stato riconvertito in base dello Stato islamico. Gli aerei senza pilota americani sono armati con un missile Hellfire che in teoria è nato all’inizio degli anni Settanta per essere montato sugli elicotteri e usato nelle pianure dell’Europa centrale nel caso di avanzata delle divisioni corazzate sovietiche; da anni invece l’ordigno ha trovato una nuova vita ed è piazzato sotto le ali dei droni che cercano le auto dei terroristi. A quel punto la procedura va avanti come se fosse su binari, secondo uno schema che ha funzionato molte volte: le coordinate sono passate agli americani, gli americani seguono il veicolo, sparano il missile Hellfire, in capo a un paio di giorni i giornali pubblicano un pezzo distratto per spiegare chi fosse il morto. Boubaker el Hakim è stato ucciso il 26 novembre 2016.

 

La seconda grande differenza è che gli israeliani in qualche modo tenevano al fatto che le uccisioni avessero risalto, in alcuni casi impiegarono trappole esplosive, volevano che il loro messaggio fosse recepito. I francesi invece no. Nei rapporti pubblici sui loro stessi raid aerei (la Francia ha mandato aerei a bombardare lo Stato islamico in Siria) per esempio non dicevano mai chi avevano colpito, ma soltanto il punto geografico che avevano colpito. La campagna alla fine è stata una sequenza laconica di nomi che dicevano qualcosa soltanto agli addetti ai lavori, spesso erano soltanto nom de guerre, quindi non identità reali. Eccola. Abu Mohamed al Adnani, Abu al Bara al Iraqi, Oussama Atar, Boubakeur el Hakim, Abu Walid al Suri, Abu Maryam al Iraqi, Abu Mahmoud al Shami.

 

Il successo della campagna è noto soltanto agli addetti ai lavori, adesso un reporter francese lo racconta
in un libro

Il risultato è che oggi ci siamo abituati a sentire che l’occidente è pavido, che l’occidente è molle, che l’occidente è in declino e che i suoi governi non fanno nulla contro il pericolo islamista, ma questo tipo di operazioni è semisconosciuto. I responsabili del 13 novembre sono rintracciati e uccisi uno per uno in Siria, ma la faccenda si perde nel rumore di mille altre notizie. Prendiamo per esempio l’ultimo nome della lista, Abu Mahmoud al Shami, uno pseudonimo che dal punto di vista degli arabi è ridicolo per la sua vaghezza: Abu, il padre, Mahmoud, di Mahmoud quindi di uno dei nomi più comune del mondo arabo, al Shami, quindi il siriano. Si tratta dell’uomo che fu mandato dallo Stato islamico in Belgio per costruire i corpetti esplosivi usati durante il massacro del 13 novembre. C’è il sospetto che nelle stesse settimane di preparazione abbia insegnato come si confezionano esplosivi anche alla cellula spagnola che poi voleva far saltare in aria la Sagrada Familia a Barcellona. Poco prima degli attentati di Parigi al Shami prese la via del ritorno verso la Siria e fu arrestato al confine austriaco ma fu rilasciato pochi giorni dopo perché nessuno riuscì a capire chi fosse davvero. Il suo nome reale era Ahmad Alkhald, rientrò a Raqqa, è una delle grandi storie di successo delle operazioni dello Stato islamico. Nel 2017 è stato individuato e ucciso dall’alto.

 

La storia dell’operazione francese per eliminare uno a uno i capi del 13 novembre è uscita grazie a un giornalista francese molto informato, Matthieu Suc del sito Mediapart, che per quattro anni ha seguito le vicende degli islamisti francofoni che partono dall’Europa per andare ad arruolarsi nello Stato islamico in Iraq e in Siria e ha ricostruito le operazioni d’intelligence della Francia per trovarli. Suc attinge per il suo lavoro da ogni genere di fonti – da cinquanta faldoni di deposizioni giudiziarie ai contatti con i servizi segreti alle confessioni di prigionieri fino alle vanterie sui social media e alle interviste dirette (più di quaranta) – e ha appena pubblicato un libro (Les espions de la terreur, HarperCollins, 416 pagine, per ora soltanto in francese) per spiegare che lo Stato islamico ha creato un proprio servizio d’intelligence che si occupa di molte cose, inclusi gli attentati all’estero. Gli chiediamo se la vendetta è stata il motivo principale della caccia ai sette. “Tutti nella Coalizione erano felici di vendicare l’attentato di Parigi, ma lo scopo era un altro, era fare un’operazione preventiva per smantellare la struttura che voleva compiere altri attentati in Europa”.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)