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Prepararsi al peggio

Paola Peduzzi

Quanto costa il continuo scontro con l’Ue? Molto, chiedete agli inglesi (ma non disperate)

Milano. Prepararsi al peggio è diventato quotidianità in buona parte dell’Europa. Noi italiani cerchiamo numeretti sui documenti del governo per capire che fine faranno i nostri risparmi dopo la gran festa sul balcone dei gialloverdi per la manovra approvata: i mercati non reagiscono bene e noi ci prepariamo al peggio. I preparativi più forsennati, si sa, sono al di là della Manica, in quel Regno Unito che deve decidere che fare di se stesso e del suo legame con l’Europa e non riesce a trovare una sintesi: a furia di convulsioni, il rischio che si finisca senza un nulla di fatto si è molto alzato. Il fallimento, nel caso del famigerato “no deal”, sarebbe di tutti: l’incapacità di negoziare, di venirsi incontro, di chiudere un occhio quando è necessario, di riaprirlo al momento giusto, di muoversi per il bene comune, è un passo indietro per l’intera comunità europea. Si può pensare che gli inglesi siano più responsabili, visto che la Brexit l’hanno votata loro e non sono riusciti a produrre un documento condiviso che non violasse i due o tre principi che l’Europa ha messo come condizioni al negoziato. Ma le conseguenze poi ricadono su tutti, e sono il segnale del fatto che i rapporti interni all’Unione europea non sono più fondati sul confronto, bensì sullo scontro. Se lo fanno i francesi lo facciamo anche noi, se lo fanno i tedeschi perché noi no, io questi migranti non li voglio e non me li prendo, voi ci volete distruggere e noi vi distruggeremo per primi: pare di abitare in un condominio dove il gioco più divertente è parcheggiare nel posto del vicino, a volte soltanto per il gusto di vedere l’effetto che fa.

  

Gli esiti sono disastrosi. I paesi europei si stanno preparando al no deal, e lo stanno facendo anche gli inglesi. Sono stati pubblicati questa settimana ventiquattro documenti che segnalano gli accorgimenti necessari per non ritrovarsi sprovveduti al momento dell’uscita – si vuole evitare quella che viene chiamata la “blind Brexit”, che tra tutte le definizioni che sono state date della Brexit è forse la più precisa. Alcuni esempi: i voli aerei tra Ue e Regno Unito resteranno a terra, perché le licenze emesse dall’Ue non saranno valide, bisognerà avere “permessi individuali” da negoziare con ogni stato (si rischia anche di dover ritirare i bagagli e rimbarcarli pure se si è in transito; se dovete far viaggiare un animale domestico iniziate già ora a compilare moduli). Automobilisti e motociclisti inglesi dovranno avere un’assicurazione internazionale per viaggiare sul continente, perché la “green card” di oggi non avrà più valore. Per le merci vale più o meno lo stesso principio: non valgono più gli accordi e le registrazioni fatte, non si può vendere nemmeno una bottiglietta d’acqua – letteralmente – sul continente se è prodotta nel Regno. La situazione nei porti è la più preoccupante, perché la Gran Bretagna è importatore netto di cibo, solo per fare un esempio, e se i porti non funzionano, ci perdono tutti, importatori ma anche esportatori (si è stimato che soltanto un rallentamento di mezz’ora ai porti rischia di far saltare un’azienda su dieci che opera nel mercato del food). E’ stato designato questa settimana, dentro al dipartimento per l’Ambiente, il Cibo e le Aree rurali, un sottosegretario che si occuperà esclusivamente delle riserve (è il parlamentare David Rutley, che ha un passato da manager a Asda e Coca Cola). Non accadeva dalla Seconda guerra mondiale, hanno sottolineato molti anti Brexit.

  

Il paradosso di questo forsennato prepararsi al peggio è che per risolvere in fretta le questioni tecniche e pratiche bisognerà fare degli accordi. Ogni documento che viene pubblicato sulle conseguenze del “no deal” ha lo stesso sottotesto: c’è bisogno di un accordo. Anche quando i brexiteers dicono che è ripartito il coro catastrofista sul mancato accordo aggiungono: le questioni tecniche si sbrigheranno in fretta. Come? Accordandosi.

  

L’ipotesi delle stelle allineate

In questi giorni inizia la conferenza dei Tory, il partito al governo. Ieri l’ex ministro degli Esteri Boris Johnson ha pubblicato un piano di sei punti per la Brexit che dovrebbe, nelle sue intenzioni, sostituire il piano dei Chequers cui è appesa la premier, Theresa May. Johnson propone la cosiddetta opzione “super Canada” che però ha un’indicibile precondizione: va negoziato con l’Ue. Cioè: ci vuole un accordo. E così, in questo clima da ultimo scontro, con la May sempre più isolata, c’è chi arriva a dire: abbiamo scelto la via più sconnessa, ma si arriverà a un accordo. Perché i negoziati sono, a un certo punto, inevitabili. Lo scrive Martin Sandbu sul Financial Times: “Quando elimini ciò che è impossibile, quel che rimane, per quanto improbabile, deve essere accettato”. Ci prepariamo al peggio perché siamo già stati incauti fin troppo, ma le stelle si allineano, dice Sandbu: tutto congiura per un accordo, ma non ditelo a nessuno.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi