Theresa May (foto LaPresse)

Tutto il peggio della Brexit

Paola Peduzzi

L’Ue è una prigione sovietica, un ponte ci salverà. E’ di nuovo il 2016

Milano. Un ponte, perché nessuno ci ha pensato prima? Un bel ponte tra l’isola inglese e quella irlandese e uno dei guai più vischiosi della Brexit – la dogana tra Irlanda e Irlanda del nord se si esce dal mercato unico – è bel che risolto. Boris Johnson, eterno aspirante premier d’Inghilterra, s’è posizionato così, sfoderando come arma l’idea del ponte, per il suo ultimo duello con Theresa May, che va in scena in questi giorni alla conferenza annuale dei Tory a Birmingham. Il copione lo sappiamo già, è uguale a quello dell’anno scorso e anche a quello dell’anno prima: tutti contro tutti, soprattutto contro la May che arriva alla riunione di famiglia stremata dal fuoco amico (e pare dal raffreddore). Sfilano tutti, ognuno con la propria coccarda sgualcita, Johnson pare sempre messo meglio, perché è visibile e conosciuto e creativo, e quest’anno è anche fuori dal governo, visto che si è dimesso in protesta con il piano Brexit presentato dalla May e approvato dal suo governo (il piano dei Chequers): ma poi cosa resta di questi affondi, di questi annunci roboanti, di questa aggressività? Poco, niente: ci vuole consenso per vincere il concorso di bellezza, e Johnson non l’ha mai avuto. Finora, aggiungono i suoi fan: sì, finora, certo, ma quel che sfugge a questa leadership cannibale d’Inghilterra è che, a furia di colpirsi e azzopparsi, il Regno è rimasto immobile. Fermo, arroccato, permaloso, isolato. Ora che l’accordo sulla Brexit deve essere fatto, o deve essere sancito il fallimento del “no deal”, ora che non bastano più i faremo, i ci penseremo, i vedremo, i toni sono tornati identici a quelli del 2016, alla vigilia del referendum.

  

Il successore di Johnson agli Esteri, Jeremy Hunt, un altro dei contendenti premier, ha tirato fuori la retorica antieuropea più dolorosa e più antistorica, quella che solitamente era utilizzata dai falchissimi della Brexit: “L’Ue dovrebbe proteggere la libertà – ha detto Hunt domenica – Era l’Urss che impediva alle persone di andarsene. La lezione è chiara: se trasformi l’Ue in una prigione, il desiderio di scappare non diminuirà ma aumenterà – e noi non saremo gli unici prigionieri che vogliono uscire”. L’Europa è una prigione, dice il ministro degli Esteri, e dalle ex repubbliche sovietiche arrivano le proteste: il progetto europeo è pace, libertà, prosperità, te lo diciamo noi che le prigioni dell’Urss le abbiamo viste, vissute, sperimentate nelle nostre famiglie. Resisteremo e ci ribelleremo, ha detto Hunt ancora ieri rilanciando lo spirito indomito di Dunkerque, mentre altri suoi colleghi dicono agli europei: piantatela di fare i bulli, meritiamo rispetto.

 

Il ponte, l’Urss, l’oppressione europea: nel 2016 ha vinto la strategia delle promesse infattibili e dei riferimenti storici sciagurati. Rischia di avere la meglio anche oggi, se non si dà una chance alla ragionevolezza del negoziato, a chi è contrario alla Brexit dei truci d’oltremanica e contrario all’idea che senza Europa si sta meglio. C’è un piano del governo May da valutare, c’è l’alternativa di un referendum sull’accordo finale, prima di ridursi alla peggiore delle alternative, la Brexit cieca, tante scorte in magazzino e nessuna idea di dove si va.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi