Una manifestazione contro la riforma delle pensioni a Sinferopoli, in Crimea (foto LaPresse)

Dissenso ai confini russi

Micol Flammini

Dalla Siberia alla Crimea, le proteste di chi si impoverisce per pagare la grandezza di Mosca

Roma. C’era entusiasmo in Crimea nel 2014, soprattutto da parte della popolazione di origine russa. Sembrava che l’arrivo di Mosca dovesse risolvere tanti problemi, portare ricchezza e dare alla penisola un senso di appartenenza. Con l’annessione, il capo del Cremlino arrivò all’apice del consenso. Sembrava imbattibile, la Russia credeva di essere tornata una potenza, recuperava i territori perduti – o meglio ceduti –, faceva paura. E anche se l’annessione della penisola comportava un impoverimento della popolazione attraverso l’arrivo delle sanzioni, ai russi non importava, “pagheremo tutti insieme”, pensavano crimeani inclusi. Meglio forti, anche se poveri. Meglio audaci, anche se sanzionati. I cittadini avevano bisogno di sentirsi grandi e per un po’ anche la Crimea si è inebriata della stessa brama di grandezza. Ma la grandezza prima o poi si paga. E non solo a livello di sanzioni, ma anche in denaro, così la storia d’amore tra la Crimea e il Cremlino è durata quattro anni. Sognava di diventare, grazie alla sua posizione strategica, una regione avvantaggiata, corteggiata. Invece è entrata a far parte della Russia ereditandone tutti i problemi economici. La costruzione del ponte, il Krymski most, eretto con estrema rapidità e inaugurato a maggio, è stato l’atto conclusivo di uno show spettacolare e incauto. L’enorme struttura sullo stretto di Kerch è costato alla Russia più di 1,5 miliardi di dollari, denaro ben speso, dal momento che il ponte è stato soprattutto una trovata elettorale. Vladimir Putin si presentò all’inaugurazione in jeans, percorse i 19 chilometri fino a Krasnodar guidando un camion – non uno qualunque ma il kamaz, una casa produttrice storica –, e non una parola sulle tasse. Quel ponte, tuttavia, qualcuno lo dovrà pur pagare.

 

Arrivato al punto più alto del suo gradimento, Putin ha deciso di trasformare il volto della Russia, di tutta la Russia, Crimea inclusa. Ha iniziato a mobilitare le risorse necessarie per infrastrutture ed esercito. Il tenore di vita non è cresciuto, ma intanto gli amici del presidente hanno assunto dei ruoli sempre più importanti e, da proprietari danarosi di pezzi della cosa pubblica, si sono trasformati in personalità che muovono interessi geopolitici. Tutta l’élite imprenditoriale è finita sotto il controllo del Cremlino. Alcuni esperti hanno definito il putinismo come un concetto “nazionalista e globalista”, “socialista e capitalista” e questo vortice di contraddizioni, questa corrente politica unica e ossimorica, è stata per anni garanzia di successo. Ma da marzo sta succedendo qualcosa. Dopo l’elezione trionfale che ha regalato a Putin il suo quarto mandato, qualcosa si è rotto. I Mondiali avrebbero dovuto portare orgoglio e visibilità, e così è stato, ma anche in quel caso le strade e gli stadi qualcuno dovrà pur pagarli. Mai, negli ultimi venti anni, le piazze russe avevano visto così tante proteste e manifestazioni di dissenso. Alle ultime elezioni i candidati che avevano il sostegno di Putin hanno perso: anche questo è un fenomeno che i seggi in Russia non avevano mai conosciuto. Secondo alcuni analisti politici la colpa di questo sbandamento di Putin che fino a qualche mese fa era imbattibile, i russi sembravano pendere dalle sue labbra, sarebbe da imputare a Sergei Kiriyenko. Capo della politica del Cremlino e, per quanto la Russia non sia ancora avvezza a certe figure, spin doctor del presidente. Kiriyenko è l’uomo che ha voluto investire tanto in una campagna elettorale spettacolare e pare che abbia allentato le regole politiche, alleggerendo alcune strategie comunicative di funzionari pubblici. Forse Putin non ne ha più voglia, sussurra qualcuno, il potere è bello ma controllare un territorio così vasto e così tanti funzionari incapaci è stancante. Infatti non è un caso che il dissenso stia partendo proprio dalle regioni più lontane dal Cremlino: l’estremo oriente russo e la Crimea.

 

In Siberia ci sono spesso manifestazioni, soprattutto dopo la riforma delle pensioni, ma come ha notato un esperto del Carnergie center, quando si è trattato di votare per scegliere i nuovi governatori, i cittadini non hanno scelto i rappresentati di nuovi valori, meno autoritari – ammesso che in Russia ce ne siano –, ma si sono accontentati degli anti Putin. La forza del capo del Cremlino era che veniva considerato come un’entità esterna al mastodontico stato russo, per questo anche la penisola annessa nel 2014, che veniva da uno stato come l’Ucraina, con altrettanti problemi di corruzione, accolse con favore il putinismo. La forza del putinisimo erano i suoi (falsi) nemici: i corrotti. Ora che è chiaro che questi nemici sono all’interno del Cremlino, ora che i russi hanno capito che le infrastrutture, anche il ponte in Crimea, i nuovi quartieri moscoviti e le grandi opere si pagano alzando le tasse ai cittadini, qualcosa si è rotto. Sono arrivate le contestazioni. La Crimea aveva regalato a Vladimir Putin un consenso che il presidente russo non aveva mai avuto prima e ora la stessa Crimea è pronta a trasformare quel consenso in dissenso. Restano i suoi sostenitori esterni, come Matteo Salvini, che in un’intervista rilasciata a una televisione ucraina di proprietà russa, ha detto che il mondo avrebbe bisogno di più leader come il presidente russo. Putin piace più fuori che dentro ormai. Non basta questo per scansare il presidente dal Cremlino. Mancano dei veri oppositori e soprattutto una coscienza politica, ma quello che la Russia sta cercando di dire è: “Non vogliamo solo strade nuove, ponti e quartieri, vogliamo cambiare e diventare più ricchi”.

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