Un manifestante con la bandiera del Nicaragua lo scorso 31 luglio durante una marcia di protesta a Managua (LaPresse)

Il guerrigliero e il macellaio: storia di Daniel Ortega

Maurizio Stefanini

Una vita come mito del progressismo internazionale, una come leader del socialismo “vegetariano”, una come dittatore che fa strage di manifestanti

Sono ormai 448 i morti in Nicaragua da quando il 18 aprile è iniziata la protesta contro il governo di Daniel Ortega, secondo la Asociación Nicaragüense Pro Derechos Humanos. Erano 322 secondo la Commissione interamericana dei Diritti Umani, 306 secondo il Centro nicaraguense dei Diritti Umani, 282 secondo una commissione per la Verità istituita dal governo. Sono solo 198 secondo il governo, “che forse conta solo quelli che stavano dalla sua parte”, ironizza la Cnn. A fine luglio il governo ne ammetteva soltanto 56, per cui anche questa fonte sembra accettare che la situazione è degenerata. Almeno 26.000 nicaraguensi sono scappati in Costa Rica, innescando un’emergenza e un soprassalto di manifestazioni xenofobe. Personalità di primo piano nella Rivoluzione Sandinista non hanno ormai la minima remora a definire Daniel Ortega un macellaio. Tra di loro il celebre Teologo della Liberazione Leonardo Boff: uno storico, in passato ottuso difensore del castrismo e del chavismo, che però ha scritto una lettera di appoggio ai vescovi del Nicaragua in cui bolla quel che sta accadendo con parole dure: “Il Nicaragua ha bisogno del dialogo, ma prima di tutto ha bisogno che le forze repressive la smettano di uccidere, specialmente i giovani. Ciò è inaccettabile. Il Nicaragua ha bisogno di pace e di nuovo di pace”. “I vescovi fanno bene a criticare il governo che sta perseguitando, sequestrando e assassinando i propri compatrioti”. “Sono perplesso per il fatto che un governo che condusse alla liberazione del Nicaragua possa imitare le pratiche del vecchio dittatore”.

 

Le proteste contro il dittatore nicaraguense sono cominciate ad aprile, i morti sono già quasi 500, dicono le stime più accreditate

Il 18 di luglio è stato il 39esimo anniversario della Rivoluzione di cui José Daniel Ortega Saavedra divenne una icona conosciuta in tutto il mondo: nato l’11 novembre 1945 in una città dal nome emblematico di La Libertad. “Secondo me c’è sempre stata una lotta interna tra il suo essere guerrigliero e il suo nuovo ruolo di capo di stato, e sempre il primo ha prevalso sul secondo”, spiega al Foglio María Lourdes Pallais, “Nella sua testa pensa di doversi difendere dalle fiere del male che tramano perché la sua Rivoluzione sparisca”. Giornalista e scrittrice, María Lourdes Pallais è una persona che certi demoni della storia del Nicaragua li conosce bene. E’ una nipote del dittatore Somoza che si schierò con i sandinisti: una vicenda da lei evocata in “Prisionera de mi tío: ficción y memoria con sello Somoza”, un romanzo che nel 2006 vinse il Premio centroamericano Rafaela Contreras. Tiene però a ricordarci che in realtà Ortega non era il vero leader della Rivoluzione. “Lo chiamavano il primus inter pares. Era soprattutto una figura di riconciliazione tra le tre tendenze del Fronte sandinista di Liberazione nazionale. Era tercerista ma aveva la capacità di intendersi con quelli della Gpp e della Tendenza proletaria”.

 

“Durante la Rivoluzione, Ortega non era il leader: era parte di una direzione collettiva”, dice al Foglio Carlos Fernando Chamorro, direttore del settimanale El Confidencial: non solo uno dei giornalisti più autorevoli del paese, ma a sua volta un personaggio con una storia familiare altamente simbolica. Suo padre era infatti Pedro Joaquín Chamorro Cardenal, il giornalista la cui uccisione scatenò la rivoluzione contro il regime dei Somoza. Sua madre è Violeta Barrios Torres de Chamorro, che alla testa dell’opposizione sconfisse i sandinisti alle presidenziali del febbraio 1990. In quello scontro i quattro figli si divisero: due con la madre; due con Daniel Ortega. Con Ortega stava in particolare Carlos Fernando, quando era direttore del giornale sandinista “Barricada”.

 

Ma in famiglia inizia anche la storia politica dello stesso Daniel: figlio di un ragioniere e di una fornaia che il regime di Somoza aveva arrestato, accusandola di trasmettere messaggi in codice camuffati da lettere d’amore. A 18 anni, studente dai gesuiti, creò una cellula rivoluzionaria al liceo, per poi partire per un Erasmus rivoluzionario: prima all’Università dell’Amicizia dei Popoli Patrice Lumumba di Mosca; poi per un corso di guerriglia a Cuba. Di ritorno si mise ad assaltare banche per finanziare la lotta, ma lo presero subito. Condannato a trent’anni quando ne aveva 22, ne passò in carcere sette, trascorrendo il tempo a comporre poesie. “Non abbiamo conosciuto Managua in minigonna”, recita la più famosa: elegiaco rimpianto di una gioventù passata dietro le sbarre. Poi il Natale del 1973 un commando sandinista assaltò a Managua la casa del ministro dell’Agricoltura, prendendo in ostaggio 24 diplomatici, il direttore della Banca nazionale e un cognato di Somoza. Nel successivo scambio Ortega recuperò la libertà, e poté così tornare a Cuba a fare un altro corso di guerriglia. Poi, però, invece di rientrare nel paese a combattere preferì andarsene nella tranquilla Costa Rica, la “Svizzera dell’America Centrale”, e aspettare gli eventi.

 

Durante le manifestazioni degli scorsi giorni, la polizia ha avuto ordine di sparare alla testa dei manifestanti, anche se bambini

A 34 anni, quando la Rivoluzione sandinista cacciò il regime dei Somoza, divenne così il leader del Nicaragua, prima come coordinatore della Giunta di governo di ricostruzione nazionale, poi dopo le elezioni del 1985, come presidente. Lo abbiamo già ricordato, però: non da leader indiscusso, bensì come “primus inter pares”.

 

Da “primus inter pares”, Ortega sopravvisse alle sanzioni economiche e alla guerriglia dei Contras che Ronald Reagan gli aveva scatenato contro. E fu come simbolo del Nicaragua assediato dall’“impero” che il piccolo uomo con la faccia da indio divenne un mito del progressismo internazionale. A 45 anni perse però elezioni che secondo tutti avrebbe dovuto vincere a mani basse: 40,2 per cento dei voti, contro il 55,2 per cento per la coalizione che presenta la candidatura di Violeta Chamorro. Sono tre partiti liberali, tre partiti conservatori, tre partiti democristiani, due partiti socialdemocratici, un partito che vuole l’integrazione dell’America centrale e perfino due partiti marxisti: tutti uniti nel volere che i sandinisti lascino il potere. Non è del tutto sicuro che lo facciano, visto che il comandante delle forze armate è Humberto Ortega, fratello di Daniel. E’ María Lourdes Pallais a ricordarci quella mattina del 26 febbraio 1990. “Faceva un gelido freddo artificiale – tipico degli impianti di aria condizionata del tropico – al Centro de convenciones Olof Palme. La stampa locale e straniera, e i simpatizzanti della Rivoluzione apparivano angosciati e insonni. L’ambiente era lugubre. Circondato dal suo entourage, un comandante appassito e disciplinato, Daniel Ortega Saavedra, vestito con jeans e una camicetta da campagna, stile ‘bulletto’ – come lo definiva una popolare canzone della sua propaganda elettorale – entra in silenzio. Si siede e lancia la notizia che teneva il mondo in sospeso: ‘desidero esprimere a tutti i nicaraguensi e ai popoli del mondo che il presidente del Nicaragua accetterà il mandato popolare emanato dal voto in queste elezioni’”.

 

Secondo María Lourdes Pallais, “è stato il suo momento pubblico più luminoso, ma anche quello in cui ha inizio a condurre la sua battaglia interiore”. Infatti il giorno dopo si presentò all’ufficio di Sergio Ramírez Mercado: lo scrittore che allora era il suo vicepresidente, e che nel ricevere il Premio Cervantes 2018 lo ha dedicato “alla memoria dei nicaraguensi che in questi ultimi giorni sono stati assassinati nelle strade per reclamare giustizia e democrazia, e ai migliaia di giovani che continuano la lotta, senza altre armi che i loro ideali, perché il Nicaragua torni a essere Repubblica”. “E’ stato un errore consegnare il potere”, avrebbe detto: secondo quanto racconta lo stesso Ramírez nel libro di memorie “Adiós Muchachos”. E’ evidente che a due mesi dall’intervento americano a Panama e un anno prima dell’altro intervento in Kuwait, l’errore vero sarebbe stato non consegnarlo. Prima di lasciare, Ortega fa comunque in tempo a far passare una legge che assegna in proprietà privata alla nomenclatura sandinista i beni già presi ai gerarchi somozisti.

 

Da capo dell’opposizione, Ortega perde poi altre due elezioni di fila. Però ne approfitta per accentuare il suo profilo moderato, esibendo nei comizi bandiere rosa invece del tradizionale rosso e nero, e sostituendo all’inno sandinista l’Inno alla Gioia e John Lennon. Secondo quello che ci spiega Chamorro, peraltro, sono queste sconfitte elettorali a precipitare una deriva caudillista. “Nel 1995 Ramírez e altri infatti uscirono per fondare il Movimento di rinnovamento sandinista: partito di sinistra democratica che purtroppo non ebbe successo. Il Fronte sandinista a quel punto è degenerato in una macchina burocratica al servizio di un leader che ha iniziato a selezionare sempre di più i suoi consiglieri dalla famiglia e da una cerchia ristretta”.

 

Come simbolo del Nicaragua assediato dall’“impero” degli Stati Uniti, Ortega assunse fama di leader rivoluzionario

Nel 1998 esplode lo scandalo di una figliastra di nome Zoila América, che lo accusa di violenze sessuali ripetute a partire da quando lei aveva 11 anni. Si salva grazie alla prescrizione, ma anche questo ulteriore, sordido scivolone in prospettiva si rivela un asset. Anche il fronte antisandinista si è intanto frantumato per via di rivalità più personali che ideologiche, e la comune necessità di reggere agli scandali ha favorito l’accordo con il presidente Arnaldo Alemán, da cui è stato sconfitto nel 1996. “L’alleanza tra il ladro e il pedofilo”, la ribattezzano. Secondo quel che ci dice Chamorro, “soprattutto da quel momento inizia ad avere un ruolo sempre più forte la moglie Rosario Murillo, che l’ha coperto di fronte alle accuse di stupro della figlia”.

 

Per sfondare al centro Ortega riempie inoltre i suoi meeting di bandiere americane; fa votare dai suoi una legge che vieta l’aborto terapeutico; prende come candidato alla vicepresidenza un banchiere ex somozista ed ex contra. Alla fine, col popolare candidato dei sandinisti dissidenti morto durante la campagna elettorale e i liberali a loro volta divisi tra pro e gli anti Alemán, la spunta, col 38,07 per cento dei voti.

 

Dal 10 gennaio del 2007 Ortega è di nuovo il presidente del Nicaragua. Perfino Carlos Alberto Montaner, Álvaro Vargas Llosa e Plinio Apuleyo Mendoza, i tre autori del famoso “Manuale del perfetto idiota latinoamericano”, in quel momento sono pronti a certificare la sua evoluzione verso un modello di “sinistra vegetariana” alla Lula, distinta dalla “sinistra carnivora” alla Chávez, che pure lo ha aiutato molto in campagna elettorale. Ma presto getta la maschera. Aderendo all’alleanza Alba con Cuba, Venezuela e la Bolivia di Morales, sia pure senza abbandonare il trattato di libero commercio con gli Stati Uniti. Inaugurando relazioni strette con l’Iran. Imbarcandosi in un’escalation di minacce belliche con la Colombia. Tornando a flirtare con Mosca, fino a invitare le navi russe e a riconoscere Abkhazia e Ossezia del sud. Soprattutto, infierendo sugli oppositori: partiti a cui viene tolto lo status; leader sotto inchiesta; ong cui è vietato di operare; processi e sequestri giudiziari contro il teologo della liberazione e poeta Ernesto Cardenal, che dopo essere stato suo ministro della Cultura lo definisce ormai un “falso socialista” e un “fascista”. In compenso, Alemán esce dal carcere cui era stato condannato per corruzione.

 

Accusato di brogli elettorali alle amministrative, quasi subito Stati Uniti e Unione europea gli tagliano gli aiuti. Per la storia di Zoila América tutte le femministe della regione gli dichiarato guerra, tant’è che, quando il 15 agosto 2009 il vescovo progressista in aspettativa Fernando Lugo si è insediato come nuovo presidente del Paraguay, lui non può andare alla cerimonia poiché un ministro locale che minaccia di dare le dimissioni se Ortega sarà presente. Ma, a parte questo infortunio, per il resto Ortega si inserisce a meraviglia nel blocco delle sinistre latino-americane al potere in quegli anni. Malgrado il Nicaragua mantenga relazioni con Taiwan arrivano anche ingenti capitali cinesi per la costruzione di un canale alternativo a Panama: capitali cinesi che si rivelano poi quasi più misteriosi di quelli del Milan, mentre l’opera in realtà non parte mai veramente, pur accendendo durissime proteste di ambientalisti e agricoltori. Però il progetto basta ad aiutare l’economia, tant’è che nel 2011 Ortega è rieletto in modo trionfale, con il 62,46 per cento dei voti.

 

Nel 1998 una figliastra lo accusò di violenze sessuali ripetute fin da quando lei aveva 11 anni. Lui negò, la moglie lo difese

Ma quando la sinistra latinoamericana inizia a perdere consensi, soprattutto quando il disastro economico del Venezuela lo priva del flusso di petroldollari che lo ha sostenuto e che è stato stimato in 4 miliardi, Ortega inizia a blindare il suo potere con l’autoritarismo. Anzi, è lui ad anticipare quel tipo di metodi che saranno poi imitati da Maduro in Venezuela e in misura minore da Evo Morales in Bolivia. Quando infatti il 6 novembre del 2016 è riconfermato presidente con il 72,44 per cento dei voti, la rielezione avviene in condizioni di assoluta anormalità democratica, dopo che sono stati fatti decadere tutti i deputati eletti con l’opposizione. Il trucco? Primo, infiltrare nei partiti di opposizione suoi scherani. Secondo: far contestare a questi infiltrati la legittimità della leadership. Terzo: far dichiarare al Tribunale supremo che il legittimo segretario era il “contestatore”. Quarto: dichiarare decaduti i deputati che non hanno accettato il nuovo leader.

 

Ovviamente, Ortega ha promesso di tutto. Quando però prova a imporre un pacchetto di austerity in flagrante contraddizione con la sua retorica populista il paese prende fuoco. Il presidente ritira allora i provvedimenti, ma ormai i fiumi di sangue scorsi hanno spostato i termini del problema. Lo stesso fratello Humberto gli consiglia di dimettersi, ma lui si aggrappa al potere. I suoi paramilitari spargono il terrore mirando alla testa dei dimostranti e perfino di bambini di 15 mesi; le città ribelli sono prese d’assalto, perfino il cardinale Leopoldo Brenes, il suo ausiliare mons. José Silvio Báez e il nunzio apostolico, mons. Waldemar Stanisaw Sommertag sono aggrediti, mentre cercano di portare aiuto a 12 oppositori assediati dentro una chiesa. “La chiesa è perseguitata” denunciano, dopo che nel 2006 il cardinale Miguel Obando y Bravo aveva salutato con entusiasmo il ritorno al potere del nuovo Ortega antiabortista.

 

Qualcuno sostiene che l’anima nera è appunto la Primera Dama Rosario Murillo, che alle ultime elezioni Daniel ha voluto come vicepresidente. Poetessa a sua volta, discendente diretta dell’eroe Augusto Sandino, amante di pettinature e vestiti vistosi, era odiatissima per molte ragioni anche prima di questa “promozione”. Per il modo in cui ha sempre preteso di dirigere la Cultura del paese, ad esempio. Per i lussi dei favoriti a lei vicini. Per il modo già ricordato in cui rinnegò la figlia stuprata Zoila América. Da ultimo, per lo stile New Age che ha preteso di imporre dalla vicepresidenza, e di cui sono appunto un esempio sia i colori vivi con cui ha fatto ridipingere lo scudo nazionale, sia gli “alberi della vita” stilizzati che ha fatto disseminare per le vie della capitale come “apportatori di energia positiva”, e che sono stati uno dei principali bersagli simbolici della furia popolare. “E’ opera della fede di Dio” ha detto della cruenta repressione. E quando la comparano a Elena Ceausescu o a Claire Underwood, riferiscono, invece di arrabbiarsi se ne sente lusingata.

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