conferenza congiunta Barnier-Raab sulla Brexit. Foto LaPresse

E se davvero non ci fosse un accordo sulla Brexit?

David Carretta

“Le probabilità di un no deal sono tra il 50 e il 70 per cento”, spiega al Foglio un diplomatico di uno stato membro. L’Ue si prepara al peggio

Bruxelles. Per la prima volta dal 29 marzo 2017, giorno in cui Theresa May ha avviato il conto alla rovescia della Brexit, notificando formalmente l’intenzione del Regno Unito di andarsene, l’Unione europea contempla seriamente la possibilità di un “no deal”: un mancato accordo che renderebbe la Brexit molto “hard” non solo per l’economia e i cittadini britannici, ma anche per i 27 stati membri che resteranno nel blocco. La Commissione di Jean-Claude Juncker ha pubblicato una comunicazione per accelerare i preparativi di un’uscita del Regno Unito senza accordo. “Vogliamo essere pronti per entrambi gli scenari”, ha spiegato la portavoce della Commissione, Mina Andreeva: “Stiamo lavorando molto duramente per avere un accordo con il Regno Unito (…), ma dobbiamo essere pronti a ogni eventualità”.

   

Il Consiglio europeo a marzo e giugno aveva inviato messaggi simili. Ma, a differenza degli scorsi mesi, l’avvertimento non rientra più nella sfera della tattica negoziale. Il messaggio non è indirizzato tanto al governo di Theresa May, ma agli stati membri e alle imprese dell’Ue che – come Londra – hanno preso sottogamba la prospettiva di un “no deal” perché tanto c’è sempre una soluzione tipicamente brussellese (un accordo all’ultimo minuto, sulla base di un compromesso fondato sull’ambiguità costruttiva). Questa volta no. L’accordo ai Chequers sulle relazioni future avrebbe dovuto permettere di sbloccare lo stallo e portare rapidamente a un accordo. Invece, dopo le dimissioni di Boris Johnson e David Davis, con le imboscate parlamentari dei Brexiter e Remainer che si moltiplicano, l’Ue si ritrova a guardare con sconcerto al caos politico a Londra e teme che May abbia perso il controllo del suo partito e dei Comuni. “Le probabilità di un mancato accordo sono tra il 50 e il 70 per cento”, spiega al Foglio un diplomatico di uno stato membro. Il capo-negoziatore Ue, Michel Barnier, accogliendo il nuovo ministro britannico per la Brexit, Dominic Raab, ha ricordato che resta “molto lavoro da fare” e mancano solo “13 settimane al Consiglio europeo di ottobre”. La prima stretta di mano tra i due ha confermato che Bruxelles e Londra vivono in mondi separati. Per Barnier, è “urgente” trovare un accordo per evitare il ritorno della frontiera fisica in Irlanda. Per Raab è “vitale” fare progressi sulla relazione futura. Oltre novembre-dicembre non si può negoziare per via delle ratifiche. A quel punto, per evitare un’uscita disordinata del Regno Unito (con gli aerei a terra, le code a Calais e Dover, i mercati finanziari nel panico, perfino il rischio di visti per poter spostarsi attraverso la Manica) non resterebbe altra scelta che prolungare i negoziati e rinviare la Brexit.

    

La comunicazione della Commissione sottolinea che “rimangono importanti questioni aperte” nei negoziati Brexit. “Non ci sono progressi sul “backstop” (soluzione di riserva, ndr) per evitare, indipendentemente dal risultato dei negoziati sulla relazione futura, una frontiera fisica sull'isola d’Irlanda”. E’ la questione più scottante per May, perché il “backstop” proposto dall’Ue prevede di fatto di separare l’Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna, creando controlli sulle merci all’interno del Regno Unito (nei porti e negli aeroporti nord-irlandesi). Londra perderebbe la sovranità su una parte del suo territorio. May metterebbe a rischio la sua maggioranza per la ribellione degli unionisti nord-irlandesi. Risultato: “L’esito dei negoziati non può essere previsto”, ha avvertito la Commissione. La sua comunicazione conferma gli scenari apocalittici evocati dopo il referendum del 2016. Senza accordo, il 30 marzo 2019 “il Regno Unito sarà un paese terzo e la legislazione dell’Unione cesserà di applicarsi”. “Non ci sarà nessun accordo specifico in vigore per i cittadini Ue nel Regno Unito o per i cittadini del Regno Unito nell’Ue”. “L’Ue dovrà applicare le sue regole e dazi alle frontiere con il Regno Unito, inclusi controlli alle dogane sugli standard sanitari e fitosanitari e sulla verifica del rispetto delle norme Ue”. “I trasporti tra il Regno Unito e l’Ue subiranno un impatto severo”.

   

I governi e i parlamenti dei 27 sono chiamati alla mobilitazione. Certificati, licenze, autorizzazioni, dogane, dazi, accise, regole di origine, restrizioni alle importazioni e esportazioni, trasferimento di dati personali: le autorità nazionali e regionali hanno un importante ruolo da giocare. “Ciascuno deve intensificare l’impegno per prepararsi a tutte le evenienze e assumersi la responsabilità della propria situazione specifica”, dice la Commissione (e chissà se il governo Conte ci sta pensando). Ciascuno stato membro deve adattare le legislazioni nazionali e dare indicazioni al settore privato, investire in personale e infrastrutture in particolare alle dogane, verificare quanti e quali leggi nazionali vanno cambiate. Il Fondo monetario internazionale ha fatto un po’ di conti sullo scenario del “no deal”. La perdita di pil per l’Unione europea potrebbe essere del 1,5 per cento in un periodo tra i 5 e i 10 anni, con danni più rilevanti per gli stati membri più interconnessi (4 per cento per l’Irlanda). Le stime per il Regno Unito arriveranno solo in settembre, ma il Fmi ha anticipato che senza un accordo sulla Brexit i danni per l’economia britannica saranno più pesanti che in Irlanda.

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