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Necrologio di una giornata (come molte altre) al confine tra Venezuela e Colombia

Alberto de Filippis

Masse di disperati lasciano Caracas per cercare oltre il confine la sopravvivenza. Ma Maduro rifiuta l’apertura di un corridoio umanitario

Cucuta, Colombia. Settantotto ore di lavoro per poter comprare un chilo di pollo sono undici giorni in tutto. Il numero di omicidi è in aumento e manca qualsiasi cosa, per questo milioni di persone hanno deciso di abbandonare il Venezuela, spesso a piedi, per cercare non tanto fortuna, quanto la sopravvivenza oltre la frontiera. Il presidente rieletto, Nicolás Maduro, in televisione ha scherzato sulla dieta che porta il suo nome, qualcosa che renderebbe l’uomo venezuelano – a suo dire tendente alla pinguedine – più attraente grazie alla perdita dei chili in eccesso. Il Foglio ha visitato i due lati del confine, nella capitale Caracas e nella città frontaliera di Cucuta in Colombia, la prima destinazione raggiunta della massa di disperati venezuelani.

 

Per arrivarci bisogna attraversare il ponte Simón Bolívar, la principale via terrestre che unisce i due paesi. 315 metri di lunghezza che ricordano le immagini dantesche di Gustave Doré con persone e masserizie che abbandonano il socialismo del Ventunesimo secolo in cerca di una normalità negata. La política del Mercosur, il mercato comune dellAmerica latina, consentiva fino a oggi, al pari di quanto accade nell’Unione europea, una relativa libertà di movimento di merci, ma soprattutto di persone, una condizione che è ormai profondamente cambiata.

 

Prima del dramma venezuelano, dei volti scavati e degli occhi spenti di persone che mai si sarebbero immaginate tanta povertà, a colpire è soprattutto il cinismo del governo chavista. Ammettere l’esistenza di una crisi umanitaria equivarrebbe a riconoscere il fallimento della propria politica. Per questo Maduro rifiuta l’apertura di un corridoio umanitario, perché teme che potrebbe portare a una crescente ingerenza nel paese, con grandi rischi per lui. Se però non esiste un’emergenza umanitaria, non esistono profughi e i venezuelani sono considerati semplici migranti economici. E la distinzione è fondamentale perché in questo caso anche le organizzazioni come l’Onu non possono intervenire, spesso bloccate da veti incrociati al Consiglio di sicurezza quando si tratta di prendere iniziative contro Caracas. Le zone frontaliere soffrono di questo stallo. Migliaia di venezuelani arrivano ogni giorno, devono essere nutriti, tanti cercano di lavorare e, offrendosi a prezzi di dumping, provocano risentimento negli stessi colombiani. Chi non riesce a trovare un lavoretto finisce per strada, cade nella prostituzione oppure nella violenza. “I gruppi paramilitari sono sempre alla ricerca di manovalanza volenterosa e coscrivono, con le buone o con le cattive, molti dei ragazzini che arrivano qui. Lo fa ad esempio lo Eln (Esercito di liberazione nazionale) colombiano”, dice al Foglio Yukiko Iriyama, vice rappresentante dell’Acnur, l’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu. Lo Eln è un altro dei gruppi militari che da anni fanno affari con droga, estorsione e sequestri, ma che nascondono la loro azione dietro un progetto politico. Sfruttando il fatto che quel che resta delle autorità venezuelane è disposto a chiudere un occhio, questi gruppi fanno avanti e indietro sulla frontiera e da una parte dicono di voler discutere di accordi di pace con Bogotà, dall’altro continuano con le loro operazioni. Quando subiscono dei rovesci e sono costretti a ritirarsi, si vendicano disseminando di mine il territorio abbandonato. I soldati colombiani sono relativamente addestrati a riconoscerle. I civili venezuelani, no. “Nessuno conosce il numero reale di morti fra i civili che hanno cercato di attraversare la frontiera. Ignoto il numero di dispersi o di ragazzine finite a vendersi in qualche bordello”, ammette padre Guillermo che passa le giornate a distribuire cibo a chi arriva a Cucuta. Ma le colpe non sono solo dello Eln, ma anche delle bacrim (acronimo per bande criminali) e degli effettivi delle Farc che non hanno accettato la pace con lo stato colombiano.

 

La comunità internazionale si è detta sconvolta per questo stato di cose, ma per ora non fa granché. La Casa Bianca ha promesso di inasprire le sanzioni contro il Venezuela. Peccato che la Citgo, importante catena di distributori di benzina statunitensi, altro non è che la filiale della compagnia statale venezuelana Pdvsa, la più redditizia delle attività del regime, peraltro associata alla russa Rosneft. Come se non bastasse Maduro ha dichiarato persona non grata Todd Robinson, incaricato d’affari americano che ha avuto 48 ore per lasciare il paese assieme al suo vice. Troppe, secondo il presidente riconfermato, le ingerenze negli affari del suo paese. Sono arrivate sdegnate dichiarazioni anche dall’Italia che è stata però la destinazione di 5 tonnellate di coltan, un minerale che serve a ottimizzare il consumo della corrente elettrica nei chip di nuovissima generazione. Qui il governo ha sparato la notizia nei telegiornali. A Roma hanno mantenuto più discrezione.

 

Una delle verità che probabilmente pochi ammettono è che avere potenziali oppositori che lasciano il paese, al governo conviene. Sempre meno persone che votano contro conviene. Il chavismo è più interessato alla propria sopravvivenza che alla sofferenza della popolazione. A nulla sono valse le accuse di frode e corruzione.

 

Vivere a Caracas in questi giorni è asfissiante, è come infilare la testa in una borsa di plastica. Seduti a un bar chiediamo del caffè e ci portano dell’acqua calda scura che lo ricorda vagamente. E’ sufficiente. Nel tentativo di ascoltare altre voci chiediamo a una signora seduta a un tavolo a fianco se abbia votato alle elezioni dello scorso maggio. “Certamente!”, dice fiera. Ci alziamo per andare a pagare e alla cassa ci ritroviamo la signora alle spalle. Cavallerescamente le cediamo il passo e scopriamo che è una professoressa di lettere. “Senta, poco fa le ho detto che ho votato, ma non l’ho fatto. Qui non si sa mai chi possa ascoltare. Non ho votato perché il risultato era scontato, ma anche perché mi hanno spostato il seggio in periferia, in un quartiere chavista. Mio figlio è in Cile e mi manda qualcosa per vivere, ma posso dirle la verità? Spero di morire presto e spero che mio figlio si rifaccia una vita lontano da qui, dimenticando questo paese. Ormai tutto è perduto. Quello che lei e’ venuto a fare qui non è una cronaca. E’ un necrologio”.

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