Andrés Manuel López Obrador (foto LaPresse)

Perché Trump rischia di trovarsi un populista a sud del confine

Eugenio Cau

Chi è Andrés Manuel López Obrador, per gli amici Amlo, un vecchio arnese del socialismo rivoluzionario latinoamericano

Roma. In Messico, nel 2017, ci si deve accontentare di piccole vittorie per rinfocolare l’orgoglio nazionale. L’assoluzione, avvenuta ieri negli Stati Uniti, di José Inés García Zárate, messicano clandestino accusato di avere assassinato una bionda ragazza americana nel 2015, è stata festeggiata dai messicani non solo (forse sarebbe meglio dire: non tanto) per il sollievo nei confronti del compatriota, quanto per la delusione inflitta all’odiatissimo Donald Trump, che aveva fatto di García Zárate il simbolo della necessità di essere più duri con gli immigrati clandestini, specie se messicani. Il rapporto tra il Messico e gli Stati Uniti sembra il risultato di un divorzio doloroso, come quello avvenuto tra Regno Unito ed Europa: tutte le volte che nello Studio ovale qualcosa va storto, il partner tradito gongola con soddisfazione un po’ maligna. Ma le sconfitte giudiziarie del trumpismo sono tra le pochissime cose di cui i messicani possono gongolare.

 

Il Messico è sempre stato un paese che ha un bisogno estremo del sostegno degli Stati Uniti – questo sostegno il Messico lo detesta e se ne lamenta in continuazione, lo chiama neocolonialismo, il disprezzo nei confronti dei gringos è moneta comune tra la gente, ma è innegabile, l’economia, le politiche di sicurezza, la guerra al narcotraffico, il turismo: tutto, troppo dipende da Washington. Ma ora che, sotto Trump, questo sostegno è venuto a mancare le cose vanno sempre peggio.

 

Il giovane presidente Enrique Peña Nieto, salito al potere nel 2012 con una ventata di riforme ambiziose che avevano fatto gridare al miracolo tutti gli osservatori internazionali, si è rivelato una delusione. Dopo aver approvato una serie di riforme capaci di rivoluzionare il sistema economico e giudiziario del paese non ha avuto la forza di applicarle appieno e questo ha provocato a performance economiche sottotono. Si è fatto trascinare in molteplici scandali di corruzione, anche se nessuno l’ha toccato personalmente, e soprattutto non è riuscito nemmeno nei fondamentali, dove per fondamentali in Messico s’intende: evitare che i messicani muoiano per mano dei narcos. Il bilancio della guerra al narcotraffico è terribile. Il numero di omicidi e rapimenti durante mandato di Peña si avvia a diventare superiore di quello già impressionante del suo predecessore, e ottobre è stato il mese più violento degli ultimi vent’anni: 20.878 omicidi, quattro ogni ora.

 

Non stupisce che i tassi di gradimento di Peña siano i più bassi di tutta la storia del Messico indipendente, e che di questo stiano approfittando i suoi avversari. Qui arriva il problema perché la combinazione tra il disagio interno e le spinte esterne del trumpismo dà forza al populismo, e oggi il candidato più accreditato per le elezioni del prossimo luglio è Andrés Manuel López Obrador, per gli amici Amlo, un vecchio arnese del socialismo rivoluzionario latinoamericano che fa sembrare Jeremy Corbyn un adepto della scuola di Chicago.

 

Amlo è in testa a tutti i sondaggi e ha ottime probabilità di vincere – anche se il partito governativo Pri ha scelto giusto questo mese come candidato l’ex ministro delle Finanze José Antonio Meade, un bravo tecnocrate che ha collaborato con molti governi ed è ben visto dai mercati. Il fatto è che avere un nuovo Evo Morales in Messico è molto peggio che averlo in Bolivia: il paese è uno dei tre pilastri dell’architettura economica nordamericana, e la sua economia è profondamente interconnessa con quelle di Stati Uniti e Canada attraverso il Nafta, il trattato di libero scambio approvato negli anni Novanta. Grazie al Nafta, le aziende americane hanno potuto produrre in Messico a basso costo, e il Messico ha finito per mandare l’80 per cento delle sue esportazioni al confine nord. Ma Trump ha detto più volte che quello con il Messico è “il peggior deal mai siglato”, e sono in corso negoziati per cambiarne i termini o cancellarlo del tutto. Il risultato potrebbe essere che Trump rischia di trovarsi un anziano populista con idee anti storiche e anti economiche e bravo a solleticare la rabbia degli elettori come partner a sud del confine.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.