In Polonia niente shopping la domenica

Micol Flammini

Parlamentare di destra e scrittrice spiegano la crisi d’identità del paese

Roma. “L’Europa ci giudica, ma non fa sforzi per capirci”, dice al Foglio Adam Abramowicz, deputato del partito Prawo i Spawiedliwosc, il Pis di Beata Szydlo e Jaroslaw Kaczynski che nel 2015 ha vinto le elezioni in Polonia stravolgendo il rapporto tra i polacchi e Bruxelles. “La sinistra, le politiche liberali e l’Ue hanno deluso la società”, dice il parlamentare, “noi abbiamo atteso, sapevamo come sarebbe finita e ora ci occuperemo di ridare ai polacchi la loro identità”. Da incarnazione del più riuscito tra i miracoli europei, la Polonia si è trasformata nella rigida espressione del nazionalismo di Visegrad. Al bando lo shopping domenicale. Via dai libri di scuola i poeti omosessuali. Al cappio (metaforico, ma non troppo) gli eurodeputati. Tutte mosse che la Polonia sta giustificando nel nome della salvaguardia dell’identità nazionale, tra molte critiche all’estero e all’interno del paese.

 

La manifestazione dell’11 novembre, che da festa per l’indipendenza polacca si è trasformata in rivendicazione dura dell’orgoglio nazionalista, ha scosso il paese. Varsavia ha restituito al mondo l’immagine di una città divisa, violenta, incattivita. Una città che rivendica l’esistenza di una “Polonia pura, Polonia bianca”, come gridavano i manifestanti del corteo, mentre ai fumogeni e alle bandiere polacche combinavano cori razzisti, antisemiti e islamofobi. Il Pis ha dovuto prendere le distanze: “L’Ue deve capire che noi non siamo l’estrema destra”, dice il parlamentare. “Siamo l’argine a queste violenze nate per colpa del Po”. Piattaforma civica (Po), il partito liberale di Donald Tusk, è accusato dal gruppo di Kaczynski di aver asservito le necessità e le caratteristiche nazionali alle volontà europee.

 

Ma nonostante l’argine gli scandali non si sono fermati. Domenica scorsa, a Katowice, città industriale nei pressi di Cracovia, si è svolta un’impiccagione simbolica. I rappresentanti del partito di estrema destra Onr hanno appeso a delle forche il ritratto di sei eurodeputati del Po che hanno votato a favore della risoluzione con la quale il Parlamento Ue ha ammonito Varsavia per il mancato rispetto dello stato di diritto, una votazione diretta alle politiche del Pis. “Ripeto, noi non siamo l’estrema destra, ci discostiamo dai fatti di Katowice”, dice Adam Abramowicz. “Siamo un partito razionale, non vogliamo lasciare l’Ue, le chiediamo solo di riconoscere le nostre caratteristiche nazionali. Questo vogliono i polacchi”.

Questa settimana, infine, il Parlamento ha votato una legge che mira a mettere al bando l’apertura domenicale dei negozi, una mossa che dovrebbe accontentare la chiesa polacca. “La legge farà solo male all’economia”, spiega Kinga Dunin, sociologa e scrittrice. “Sono cattolica, ma questo sodalizio tra chiesa e governo sta diventando inquietante”. Per la Dunin, “il Pis in meno di due anni ha stravolto ogni cosa: la legislazione, la stampa e la società. Ogni aspetto delle nostre libertà è a rischio”.

 

Dall’ingresso nell’Ue nel 2004, la Polonia è diventata sempre più multietnica, cosmopolita. Complici le multinazionali che hanno deciso di dislocare le loro sedi approfittando delle agevolazioni fiscali che i governi, sapientemente, avevano ideato per rendere attraenti le maggiori città polacche. Sono arrivate Bosch, Mariott, Coca-cola, Zepter, Deloitte e con loro tanti stranieri. Una trasformazione, però, avvenuta solo in superficie. “L’Europa deve capire che ogni nazione ha il diritto di scegliere la propria strada”, dice Abramowicz. “I polacchi sono sempre stati un popolo aperto, ma oggi dobbiamo preservarci”, dice. “Quello che va bene per gli italiani e i francesi, non può andare bene per noi o per gli ungheresi. Se l’Ue non rispetta le nostre radici dobbiamo imporci”.

 

L’ossessione identitaria di cui soffre il Pis sta tradendo una parte di Polonia che invece si sente rappresentata dal cosmopolitismo che, a fatica, la nazione ha conquistato in questi ultimi anni. “Abbiamo perso tanto a causa del nazismo, questa nazione era molto tollerante, per questo la più grande comunità ebraica viveva qui”, spiega la Dunin. “La perdita della componente ebraica è andata a scapito della nostra cultura. Non siamo una nazione razzista, ma sono molto preoccupata per gli ultimi eventi. L’Ue per noi è stata una conquista e ora ha il compito di proteggerci. Non siamo l’Ungheria, qui c’è una forte opposizione, ormai scendiamo in piazza quasi ogni settimana per dire che l’Europa è parte della nostra identità”.

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