Las Vegas, le finestre rotte del Mandalay Bay hotel, attraverso le quali ha sparato Paddock (foto LaPresse)

Las Vegas è un colpo per chi prova a spiegare le stragi con la pazzia

Claudio Cerasa

Perché il terrore più grande con il quale dobbiamo cominciare a fare i conti è il terrore di dover guardare negli occhi, e senza scappare, le ragioni che spingono qualcuno a compiere una strage

Se la causa non è la follia, allora cos’è? Se la causa non è la pazzia, allora come la si spiega? Se la colpa non è della depressione, allora come si fa? Prima ancora del dibattito sulla necessità o meno di dare una nuova cornice legislativa alle norme che regolano l’uso delle armi negli Stati Uniti, negli ultimi giorni tutti i principali giornali americani hanno cercato senza fortuna di rispondere a una domanda impossibile relativa agli incredibili dettagli emersi dalla strage di Las Vegas: perché lo ha fatto? Generalmente, all’indomani di quasi ogni strage, l’opinione pubblica tende a rassicurare se stessa cercando una spiegazione alla sparatoria, all’attentato o all’atto di terrorismo che di solito segue due vettori diversi. Da un lato, se la strage si manifesta in America i veri responsabili della mattanza sono sempre le norme che regolano il possesso delle armi, e lasciare intendere che sia sufficiente una modifica a una legge per prevenire una strage futura è un’operazione che tende a rassicurarci, a darci un sollievo. Dall’altro lato, se la strage si manifesta invece in un qualsiasi contesto in cui il killer mostra di aver agito sulla base di una propria convinzione, si tende a uscire fuori dagli schemi del razionale e a giocare così con le rassicuranti chiavi della sociologia o della psicologia – che di solito tendono a scaricare sulla società contemporanea le responsabilità di un atto violento.

    

Ha ucciso perché era pazzo. Ha ucciso perché era depresso. Ha ucciso perché era emarginato. Ha ucciso perché era povero. Ha ucciso perché era escluso. Ha ucciso perché viveva in una società diseguale che lo ha spinto ad agire in quel modo. Scaricare tutto sul gun control (come ha ricordato sabato scorso il Washington Post, l’attuale tasso di violenza di armi da fuoco in America è basso ed è inferiore rispetto al picco del 1993, quando il tasso di morti per arma da fuoco è stato di 6,21 ogni 100.000 persone, contro i 3,4 nel 2016) o scaricare tutto sulla pazzia dell’individuo è un’operazione che ci permette di auto convincerci che le ragioni di una strage siano principalmente legate a un qualche guasto della società, che porta a spingere un potenziale omicida a compiere i suoi atti crudeli.

   

Eppure, la storia di Las Vegas ci dice in modo chiaro e netto che né la chiave del gun control né la chiave della follia sono sufficienti per esempio a spiegare quello che è successo nella notte del due ottobre, quando un uomo di nome Stephen Paddock ha caricato sulla sua auto 1.600 caricatori di munizioni, quarantadue armi da fuoco, diversi contenitori di un esplosivo usato comunemente al tiro al bersaglio per un totale di oltre 22 kg e sparato per dieci minuti dalle finestre del 32esimo piano del Mandalay Bay Hotel, dove si era registrato qualche giorno prima. Stephen Paddock non era pazzo (In America, ha ricordato sempre il Washington Post citando una ricerca del National Comorbidity Study-Replication, solo il 4 per cento della violenza è causato dai sintomi di gravi malattie mentali come la schizofrenia e il disturbo bipolare). Non era disagiato. Non era depresso. Non era povero. Non era malato. Aveva una vita normale. Con un buon reddito. Una serie di imprese avviate. Nessun rilevante precedente penale.

 

Stephen Paddock, da quello che sappiamo oggi, ha ucciso insomma in modo perfettamente lucido e razionale, guidato da una sua idea, da un suo progetto, forse persino da una sua personale missione di vita. Da questo punto di vista, i fatti di Las Vegas, a meno di non voler credere che siano le leggi dello stato a rendere possibili o non possibili le stragi, se osservati senza paraocchi ci dicono in modo chiaro e lineare che chi compie un eccidio non lo fa necessariamente perché si trova in uno “stato di disagio” ma lo fa perché decide di muoversi sulla base di una propria ragione, purtroppo non necessariamente irrazionale. In altre parole, il fatto che Stephen Paddock ha ucciso perché voleva uccidere (anche se non sappiamo il perché) dovrebbe farci riflettere sulla possibilità che anche chi compie stragi sulla base di una motivazione esplicita lo faccia non perché si trova in uno stato di follia ma perché è spinto da una propria esplicita visione del mondo.

     

Generalmente, il tentativo dell’opinione pubblica di trovare nella sociologia e nella psicologia delle risposte convincenti utili a spiegare le stragi è un tentativo che in molti mettono in campo non solo quando c’è una strage di cui non si capiscono le ragioni ma anche quando c’è una strage di cui non si vogliono capire le ragioni. Da questo punto di vista, il caso Paddock ci suggerisce che la chiave della follia, della pazzia e della depressione è purtroppo una chiave spesso sballata per capire le ragioni di una strage. Vale per il caso Paddock e vale soprattutto per altri casi di cui spesso non vogliamo capire le ragioni, come sono per esempio altri attentati che, a differenza di Las Vegas, hanno delle ragioni esplicite, come per esempio gli attentati compiuti in nome di dio.

   

Las Vegas, il cordoglio dopo la strage del 1 ottobre (foto LaPresse)


  

In uno splendido corsivo pubblicato martedì scorso sul Foglio, Annalena Benini ha notato come, dopo la strage di Las Vegas, tutti abbiamo cercato di avere più dettagli possibili su quest’uomo, per metterlo in una categoria precisa di assassini, di stragisti, di pazzi fucilatori, perché non ci sembra abbastanza folle, né abbastanza psicopatico, e perché senza una definizione, la paura del nulla fa ancora più paura. Il terrore del nulla è certamente un moltiplicatore delle nostre paure ma la strage lucida e razionale di Las Vegas ci consegna un terrore forse ancora più grande. L’idea cioè che di fronte a una strage sia possibile sostenere che qualcuno uccida altre persone in nome non di una follia ma di un proprio credo o di un proprio mostruoso ideale.

          

L’idea infine che di fronte a una strage, specie quando le ragioni della strage sono esplicite e specie quando il credo viene reso manifesto, non ci sia solo una società (la propria) contro la quale scagliarsi, ma ci sia un’ideologia (o una religione) da studiare, da comprendere e a volte da combattere. Può essere rassicurante e consolatorio dire che chi uccide qualcuno lo fa sulla base di un istinto irrazionale. Ma spesso la lente di ingrandimento della pazzia è quella meno adatta a capire le ragioni che portano qualcuno a premere un grilletto. Vale quando le ragioni sono misteriose, come per la strage di Las Vegas. Vale quando le ragioni sono poco misteriose, come per esempio può essere una strage generata in nome di un dio.

         

La strage di Las Vegas ci dice molte cose che non sappiamo ma ci dice anche una cosa che vale la pena essere ricordata e che spesso non vogliamo ammettere a noi stessi: il terrore più grande con il quale dobbiamo cominciare a fare seriamente i conti di fronte a una strage è il terrore di dover guardare negli occhi, e senza scappare, le ragioni che spingono qualcuno a compiere una strage. A volte quelle ragioni non si conoscono (Las Vegas) ed è comprensibile che non si comprendano. Altre volte quelle ragioni si conoscono (l’islam integralista) ed è incomprensibile che si vogliano ancora nascondere dietro l’idea rassicurante che ogni strage sia sempre spiegabile con un’unica parola: la follia.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.