I narcisi del terrore

Giulio Meotti

“Nell’occidente che ha eliminato la religione e il padre, il culto della celebrità provoca azioni estreme”. Parla lo psichiatra Dalrymple: “L’uomo buono di Rousseau è pericoloso, meglio il peccato originale”

"Ho trascorso più tempo in carcere io dell’assassino medio”, ha detto una volta al Wall Street Journal Theodore Dalrymple, nom de plume di Anthony Daniels, che fra gli psichiatri è quello che ha più riflettuto sulle origini culturali della violenza nelle società occidentali. “Ho conosciuto criminali fra i più pericolosi d’Inghilterra che hanno ricercato la notorietà attraverso il male. Questo perché il nostro culto della celebrità, in assenza di una fede in un senso più profondo della vita umana, provoca azioni estreme”.

 

Classe 1949, ateo di origini ebraiche, medico in Africa e poi psichiatra nelle carceri del Regno Unito, Dalrymple si è fatto una fama come uno dei più seguiti commentatori del Regno Unito, editorialista per il Times, il Guardian, e autore di fortunati saggi come “Fool or Physician: The Memoirs of a Sceptical Doctor”, “Our Culture, What’s Left of It” e “The Pleasure of Thinking”. Celebre la sua rubrica, dal titolo “Se i sintomi persistono”, sul settimanale Spectator .

 

"La nozione cristiana è molto più realistica di quella militantemente laicista, di cui Rousseau è stato uno dei santi protettori"

“La prima cosa da dire è che non sappiamo ancora tutto quello che c’è da sapere sull’autore di questa atrocità a Las Vegas”, dice Dalrymple al Foglio in merito al massacro di 59 persone che Stephen Paddock ha compiuto al concerto di domenica scorsa. “Forse diventerà più chiaro mano a mano che le indagini si approfondiranno. Noi tendiamo sempre più a vedere il comportamento umano non attraverso termini morali, ma come manifestazioni della fisiologia. Così il New York Times ha appena esaltato la politica portoghese della lotta alla droga che si basa sull’idea della dipendenza come malattia, piuttosto che come il risultato di una scelta moralmente sbagliata, nonostante tutte le prove contrarie. Forse l’attacco di Las Vegas non era affatto nichilista, forse l’autore aveva un messaggio da trasmettere al mondo, una protesta contro qualcosa, piuttosto che una rivolta contro la propria esistenza banale. Ma supponiamo per il momento che avesse la consapevolezza della propria nullità, perché avrebbe fatto una cosa del genere? Se giungo alla conclusione che la mia vita è inutile, penso che mi chiuderei nel silenzio, come a una festa in cui nessuno mi guarda. Pertanto, suppongo che la vanità ferita abbia giocato un grande ruolo nella decisione di quest’uomo”.

 

Secondo Dalrymple, il sospettato principale per queste stragi non è la “lobby delle armi”, ma uno scrittore e filosofo: “A noi ci ha fregato Jean Jacques Rousseau, la sua nozione per cui tutto ciò che è male negli esseri umani è attribuibile alla società. Più uno è socializzato, più le sue inclinazioni sarebbero migliori. Nell’età democratica, soltanto il comportamento delle autorità è soggetto a critica pubblica, mai quello delle persone. E’ la versione moderna della dottrina di Rousseau: se non fosse per l’autorità, l’uomo sarebbe buono. Non vedo come possa questa idea non portare a un disastro. Rousseau è il fondatore della psicologia del ‘Real Me’, cioè del nucleo interno di ciascuno di noi che rimane immacolato e senza peccato. Il nucleo interno, il Real Me, è buono. In questo modo un mostro di depravazione può conservare un’alta opinione di sé. I sentimentalisti cercano di compensare una mancanza di sentimenti attraverso l’esibizionismo emotivo. Per il sentimentalista allora non esiste un criminale, solo un ambiente che lo ha abbandonato. La nozione cristiana di peccato originale è molto più realistica, anche se non ne hai una fede religiosa, della visione militantemente laicista, di cui Rousseau è stato uno dei santi protettori”.

 

 Dagli stragisti della “Fatherless America” al norvegese Breivik, “il figlio del nuovo tipo di accordi familiari in Europa occidentale”

Dieci anni fa, dopo il massacro al Virginia Tech, l’intellettuale libertario afroamericano Thomas Sowell, economista alla Ucla University e a Stanford, scrisse un articolo che fece scalpore. Si chiese Sowell: “Le stragi di massa di oggi sono le conseguenze della colpa collettiva degli anni Sessanta?”. La prima di queste stragi avvenne proprio nel 1966, ad Austin, Texas, dove sedici persone persero la vita sotto i colpi di Joseph Whitman, appostato sulla torre dell’università.

 

“Cosa c’era nella visione del mondo degli anni Sessanta che poteva portare chiunque a considerare giusto sparare a persone che non gli avevano fatto nulla?”, si chiese Sowell. “La colpa collettiva è una delle eredità degli anni Sessanta che è ancora con noi. Durante gli anni Sessanta si diffuse l’idea che qualunque cosa ti mancasse fosse colpa di qualcun altro, colpa della società. Invece di proibire le armi, forse dovremmo ripensare i dogmi degli anni Sessanta”. James Alan Fox, autore di “The Will to Kill”, ha indicato nell’eclissi della comunità tradizionale, nei troppi divorzi e nel declino delle chiese, la causa dell’esplosione di violenza insensata in America in mezzo secolo.

 

Anche prima le case degli americani erano piene di armi. Poi è successo “qualcosa”. L’America è rimasta orfana. Dalla miriade di studi sui profili degli stragisti di massa emerge un elemento in comune a quasi tutti: la scomparsa del padre. Si va da Paddock, l’assassino di Las Vegas, a Dylann Roof, che ha ucciso nove persone nella chiesa di Charleston. Come ha sottolineato il professor Brad Wilcox dell’Università della Virginia, “quasi ogni attacco ha coinvolto un giovane i cui genitori erano divorziati”. La sua osservazione è stata in gran parte ignorata. Avrebbe messo in discussione uno di quei “dogmi” di cui parlava Sowell. Ne è un esempio Adam Lanza, l’assassinio dei bambini della scuola Sandy Hook di Newtown. Il sociologo Charles Murray ha scritto che “l’illegittimismo è il problema sociale più importante del nostro tempo, più importante del crimine, della droga, della povertà, dell’analfabetismo, del benessere o del senzatetto perché guida tutto il resto”. David Blankenhorn al tema ha dedicato un libro intitolato “Fatherless America”, l’America senza padre: “Stasera, circa il 40 per cento dei bambini americani andrà a dormire in case in cui i loro padri non vivono”. Fu lo stesso Simon Leys a scrivere: “Nella storia del mondo civilizzato non è mai stato trovato alcun sostituto per la famiglia. Qualsiasi società che le permette di disintegrarsi o di cercare di distruggerla attivamente (come stiamo facendo qui) lo fa a proprio terribile rischio e costi”. Che queste stragi di massa non siano un prezzo pagato dalla società culturalmente orfana?

 

“Pensavamo di vivere nella società più sicura della storia, l’islam radicale e le esplosioni di violenza ci ricordano che è un’illusione”

“Quando si cerca di spiegare comportamenti come questo, è naturale cercare di trovare fattori in comune tra coloro che lo hanno fatto” dice ancora Theodore Dalrymple al Foglio. “Supponendo che troviamo, ad esempio, che l’85 per cento degli assassini di massa come questo vengono da case senza un padre. La grande maggioranza delle case dei senza padri non lo farebbe, e grazie a Dio, si potrebbe aggiungere, data la loro prevalenza oggi. Tuttavia, se si considera che la propensione naturale ad agire in un certo modo è distribuita come in una curva a campana, l’intera curva può essere spostata in una direzione o in un’altra secondo le condizioni sociali. Alla fine dell’infanzia, un bambino britannico è molto più probabile che abbia una televisione in camera sua che un padre. Ricordo che un giovane paziente, quando gli ho chiesto cosa facesse il padre per vivere, mi ha risposto: ‘Intendi il mio padre attuale?’. Anders Breivik (l’autore della strage di Utoya, ndr) era il figlio del nuovo tipo di accordi familiari che hanno sostituito completamente la famiglia nucleare tradizionale in gran parte dell’Europa. Sua madre aveva già avuto un figlio da un precedente legame; suo padre, un diplomatico, aveva tre figli da un matrimonio precedente. Lei era così preoccupata dalla sua freddezza che aveva considerato di abortire il bambino. Bisogna sempre ricordare che le cose terribili sono sempre successe, proprio come il clima è sempre cambiato. La questione è se ce ne sono più o meno di questi eventi. Se le mie ipotesi dell’autostima ferita e dell’importanza di sé sono corrette, ci sono in realtà buone ragioni per supporre che tali eventi siano diventati più frequenti dagli anni Sessanta, il decennio dell’autostima. E’ la discesa dell’occidente in un nichilismo narcisistico. Il culto della celebrità trivializza qualsiasi cosa tocchi. Le celebrità nelle riviste non sono celebrate per i loro successi reali, ma per i travagli banali dell’esistenza. I loro matrimoni che si rompono, spesso ripetutamente, i fidanzati infedeli, le battaglie per mantenere costante il peso, le overdosi e le dipendenze dai tranquillanti. Godiamo dei piaceri dell’adorazione dell’eroe che della crudeltà. L’‘effetto Werther’, per tutti, è ben noto come un’epidemia di suicidi da parte di molti giovani in Europa per la pubblicazione dei ‘Dolori del giovane Werther’ di Goethe, in cui l’eroe romantico si uccide per un amore impossibile. Ora si riferisce all’aumento di suicidi dovuto alla risonanza di un gesto estremo nei quotidiani o in televisione. Il suicidio di una celebrità ha un ‘effetto Werther’ quattro volte maggiore di quello di una persona sconosciuta. In assenza di qualsiasi talento particolare, uccidere un sacco di gente garantisce molta attenzione. Il culto della celebrità e del narcisismo genera un’ambizione che deve essere notata da grandi numeri e il culto genera risentimento e amarezza, in quanto la celebrità è una materia scadente distribuita ingiustamente. Dal risentimento alla supposta ingiustizia c’è solo un piccolo passo verso la paranoia. Anders Breivik era un’ambizioso mediocre, rappresentativo della sua epoca, passata dalla meritocrazia, l’ascesa sociale dell’abilità indipendentemente dall’origine sociale, alla mediocrazia, l’ascesa dell’ambizioso indipendentemente dalla sua capacità”.

 

Dalrymple fa l’esempio del pilota del Germanwings. “Qualunque cosa si possa dire su Andreas Lubitz non gli è mancata l’assistenza medica. A giudicare dal terribile risultato, tuttavia, non gli faceva molto bene. Al contrario, è possibile, sebbene non dimostrabile, che lo abbia peggiorato. Molti assassini di massa prendevano tali droghe quando hanno commesso i loro atti, ad esempio Matti Saari, che ha ucciso dieci persone in Finlandia. Andreas Lubitz non era depresso, era un narcisista arrabbiato. Non voleva scivolare via tranquillamente, voleva la fama, anche se fosse stata soltanto notorietà. Se si fosse ucciso saltando da un edificio, ad esempio, nessuno avrebbe mai sentito parlare di lui. Le 149 persone sono state sacrificate alla sua vanità ferita e al suo desiderio di fama. Conosco il tipo. Una volta, come medico in prigione, incontrai un prigioniero che non sopportava di essere sconosciuto. Meglio essere odiati che anonimi. Adreas Lubitz è una storia molto moderna”.

 

Siamo ormai una società culturalmente disarmata. “Il declino della religione, la sua eliminazione, è la chiave di volta. Il secolarista demoralizza il mondo, aumentando la vulnerabilità delle potenziali vittime. L’assenza di fede religiosa, a condizione che tale fede non sia omicidamente intollerabile, può avere un effetto deleterio sul carattere e sulla personalità umana. La religione insegnava alle persone a essere importanti e umili e il suo declino ha lasciato lo spazio al narcisismo. Lo choc, il trauma della Seconda guerra mondiale è profondissimo. Il declino della religione, iniziato nel Settecento, ha accellerato l’esplosione di violenza nel comunismo e nel nazismo. L’islam radicale oggi ne è una manifestazione”.

 

Come mai queste stragi si verificano solo in occidente e quasi mai altrove? “Perché nelle altre società la violenza origina da altre fonti”, conclude Theodore Dalrymple al Foglio. “In occidente ci eravamo illusi di aver abolito guerra e violenza, di vivere in una società molto sicura. E questo ha generato in noi la compiacenza. Siamo degli hegeliani che pensano di essere arrivati alla ‘fine della storia’. Ma da allora, l’ideologia è soltanto tornata sempre più forte, dal femminismo all’ambientalismo. Una società secolarizzata vive per un certo tempo sul capitale morale, per così dire, accumulato dalla precedente società religiosa. Ma il capitale, come tutti sappiamo, può essere sperperato”. Alle slot machine o dal trentaduesimo piano dell’hotel Mandalay Bay di Las Vegas. Ribaltando la celebre formula di Hannah Arendt, Dalrymple l’ha chiamata “frivolezza del male”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.