Non basta la lotta per rinverdire il mito (sbiadito) dell'anglosfera

Mario Ricciardi

Dopo gli anni di gloria post Guerra fredda, la retorica delle due sponde atlantiche è oggi meno forte. Un saggio tra storia e politica

Verrebbe da dire che la vittoria della Brexit sia comunque il trionfo del Project Anglosphere. Prima di pronunciarsi su questo punto, è opportuno tuttavia considerare quale sia l’atteggiamento tenuto nei confronti dell’ideale dell’anglosfera da parte del principale interlocutore di chi lo propone: il governo degli Stati Uniti. Non c’è dubbio che guardando a queste cose da Londra, la vecchia sede imperiale, si tende inevitabilmente a sottovalutare il fatto che l’ipotesi di una comunità politica che unisca la nazioni anglofone che condividono una stessa tradizione politico-culturale, secondo la vecchia intuizione di Churchill, non sta in piedi se non con l’assenso di Washington. Il che non è affatto scontato. (…) Alle soglie del nuovo secolo, dopo che il presidente George Bush senior aveva proclamato la “fine della Guerra fredda”, gli Stati Uniti sembravano essere diventati l’unica vera potenza globale. Con la dissoluzione dell’Unione sovietica era scomparso il presupposto bipolare che aveva fatto da perno per più di quaranta anni alla politica estera statunitense. Privi di un nemico, gli americani si trovavano ad avere soltanto competitori economici. Nel nuovo scenario c’è persino chi ipotizza una “tentazione imperiale” di cui potrebbe cader vittima il paese. Naturale che in questo contesto alcuni rivolgano la propria attenzione all’ultimo grande impero della storia recente, il primo che forse si possa considerare realmente globale, quello britannico. Per coloro che negli Stati Uniti sono inclini ad assecondare la tentazione, le somiglianze sono suggestive. Non si tratta solo della mera estensione dell’Impero britannico che, nel suo momento di massima espansione, tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, abbraccia tutti i continenti. C’è anche il fatto, che aveva molto colpito la fervida immaginazione di Carl Schmitt già nel corso dell’ultima guerra, che questa capacità di proiezione del potere imperiale di Londra sia dovuta in maniera essenziale alle risorse tecnologiche che esso ha disposizione. Le grandi navi prima e lo sviluppo dell’aviazione poi, due settori di cui i britannici colgono immediatamente l’importanza, contribuiscono in modo decisivo a cambiare la percezione dello spazio terrestre. (…). Queste somiglianze tra l’Impero britannico e la sfera di influenza statunitense fanno riemergere un’altra suggestione, che si era affacciata negli scritti di diversi autori nel corso della Guerra fredda, ovvero che nel secondo dopoguerra abbia avuto luogo una silenziosa traslatio imperii da Londra a Washington. Un aspetto ulteriore che sollecita l’immaginazione di chi guarda con simpatia all’idea di anglosfera è quello di una presunta continuità tra la tradizione politica britannica, concepita normalmente come espressione di una concezione classica del liberalismo, e quella statunitense. Una parentela che sarebbe evidente in modo particolare nel carattere rappresentativo del governo britannico e di quello statunitense e nelle caratteristiche comuni dei rispettivi sistemi giuridici. Sotto questo profilo, l’anglosfera sarebbe un modo per riunire ciò che la storia ha – momentaneamente? – diviso. Inutile dire che ci sono molti aspetti criticabili in questa visione dei rapporti tra Regno Unito e Stati Uniti. Basti pensare al ruolo molto diverso che i due paesi hanno della libertà individuale – di cui l’atteggiamento opposto in relazione al diritto dei privati di portare armi è forse la manifestazione più evidente. La concezione britannica della libertà, nella misura in cui ha senso contemplare questo tipo di generalizzazione, non è affatto libertaria. Ciò nonostante, l’attacco alle torri gemelle dell’undici settembre del 2001 conferisce nuova forza al discorso sull’anglosfera. In quello che molti conservatori statunitensi avvertono come il vuoto di visione strategica dei democratici, l’esperienza dell’Impero britannico, riletta da storici come Niall Ferguson in chiave positiva, diviene un punto di riferimento, un precedente su cui riflettere in cerca di nuovi princìpi per la politica estera. Nella ricostruzione di Ferguson, l’Impero britannico, per buona parte della sua storia, ha agito come una forza a favore dell’imposizione di mercati liberi, della rule of law, della protezione degli investitori e di standard di governo per quanto possibile esenti dal rischio di corruzione. Al punto che si potrebbe affermare, secondo lo storico scozzese, che “nessun’altra organizzazione ha fatto altrettanto per imporre norme giuridiche, ordine e governance di tipo occidentale in tutte la parti del mondo” . In un certo senso, in questa versione “scozzese” (come ha fatto notare con una punta di ironia Christopher Hitchens) la globalizzazione diventa “anglobalizzazione”, o se si vuole, un’anglosfera globale. Riprendendo un motivo classico dell’apologetica vittoriana, Ferguson sostiene il profilo liberale di un impero in cui le critiche agli eccessi e alle sopraffazioni perpetrate dagli agenti del potere economico o politico britannico venivano in primo luogo proprio dall’opinione pubblica della madrepatria. (…) La versione imperiale del progetto anglosfera si alimenta ancora oggi della visione di un conflitto di civiltà tra occidente e paesi islamici, ma appare aver perso buona parte della forza retorica che sembrava avere una decina di anni fa. Oggi il Regno Unito, avviato sulla via della Brexit – un processo non un evento – sta attraversando una delle crisi politiche e sociali più gravi della sua storia recente, e non sembra certo avviato, per il momento, a ricongiungersi con i cugini con i quali condivide una parte senza alcun dubbio molto importante della sua storia.

 

Pubblichiamo alcuni stralci tratti da “Declino dell’anglosfera?”, l’articolo di apertura del numero appena uscito della rivista il Mulino (n. 4/2017, pp. 533-546)

Di più su questi argomenti: