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Tra gli stand elettorali di Seul, dove tutto parla di Pyongyang (ma non ditelo)

Giulia Pompili

Nella campagna elettorale non si parla di economia, non si parla di problemi sociali, si parla solo di Corea del nord

Seul, dalla nostra inviata. In questa campagna elettorale non si parla di economia, non si parla di problemi sociali, si parla solo di Corea del nord. E’ il cavallo di battaglia di Sim Sang-jung, unica candidata donna nella corsa alla presidenza di Seul che ha cinque aspiranti presidenti, ma un solo favorito. Sim viene dalla militanza sindacale, è la leader del partito della Giustizia, ma qui il teorema femminile non funziona più: la piazza, in soli sette mesi, è riuscita a far cadere la presidente Park Geun-hye, coinvolta in uno scandalo di cui si conoscono ancora pochi dettagli ma che ha portato a una Mani Pulite alla coreana con arresti eccellenti (il capo de facto della Samsung, la consigliera personalissima della presidente, e la presidente stessa). In effetti la tensione provocata dal presidente americano Donald Trump – convinto sin dalla sua elezione nel novembre scorso di risolvere la questione del nucleare nordcoreano, lasciata a se stessa da Barack Obama negli ultimi otto anni in nome della politica della “pazienza strategica” – ha polarizzato l'opinione pubblica straniera, ma non del tutto quella coreana. Lo dimostra un dettaglio: la candidata Sim, più attenta alle istanze del cosiddetto “paese reale”, fino a oggi ha ottenuto il miglior punteggio in cinque dibattiti pubblici su sei.

 

Eppure a vincere, martedì prossimo, secondo i sondaggi sarà quasi sicuramente Moon Jae-in, sessantaquattro anni, super liberal del Minjoo (il Partito democratico coreano). La faccia di Moon è in ogni angolo di Seul, i suoi manifesti si vedono fino nelle periferie, e questo è anche un modo per mobilitare i cittadini: il Partito democratico sa che sulle questioni interne il suo candidato è debole, e serve una grande speranza per vincere con il “landslide” annunciato. Secondo i quotidiani coreani di ieri l’affluenza, per quanto riguarda i voti anticipati (in Corea del sud se hai da fare il giorno del voto puoi domandare di votare prima) è già molto alta.

 

Moon Jae-in vuole tornare al periodo della “sunshine policy”, quando Seul e Pyongyang parlavano e facevano affari, e ha detto che il suo paese non può limitarsi a sedere a un tavolo in cui le due potenze, Cina e America, parlano di Corea del nord. No: la Corea del sud deve tornare a essere determinante nei rapporti con il regime di Kim Jong-un. In un’intervista al Washington Post di qualche giorno fa, Moon ha poi abbassato i toni per il pubblico occidentale, parlando di Trump come di un “uomo ragionevole” e anche sul sistema antimissilistico americano Thaad, da poco messo in funzione su territorio sudcoreano, è stato più aperto a una soluzione condivisa. Ma non ha parlato di molto altro. La presidenza che avrebbe dovuto essere riformatrice, di svolta, costituente, rischia un altro bluff.

 

Ma dato che le elezioni di martedì 9 maggio potrebbero determinare cambiamenti importanti nella politica estera coreana, i paesi dell’area asiatica guardano con attenzione a ciò che accade. I media stranieri in arrivo a Seul sono tantissimi, e il Foreign press center, che aveva un sistema di accreditamento per seguire il voto in alcuni, selezionati seggi, ieri è stato costretto a cambiare le procedure e raddoppiare i seggi con i punti stampa. Nel frattempo a Gwanghwamun, la piazza che più di ogni altra rappresenta l’anima della città, proprio di fronte al ministero dell’Unificazione con il nord, sono stati allestiti tre stand per ricordare l’importanza del voto. In uno c’è un cartonato con i cinque candidati alla presidenza vestiti come i giovani del K-Pop coreano; in un altro c’è la riproduzione a grandezza naturale del tavolo del presidente nella Casa Blu. Dalla parte opposta della piazza c’è ancora il presidio di “Verità per il Sewol”, il traghetto affondato nel 2014 in circostanze misteriose. All’angolo, invece, una trentina di persone manifesta a sostegno dei sei sindacalisti che sono saliti sul tetto di un palazzo per chiedere la riforma della legge sul lavoro. La polizia è il doppio rispetto al presidio, gli scudi antisommossa schierati e il cuscino gonfiabile dove far cadere i sei manifestanti già pronto. Nella spianata di cemento e giochi d’acqua che è piazza Gwanghwamun, l’unico indiretto riferimento alla Corea del nord è una signora, da sola, che indossa due cartelli: “No Thaad No War”, e poi “America asse del male”. Ieri la Kcna, l’agenzia di stampa nordcoreana, ha diffuso una notizia secondo la quale la Cia americana e la Corea del sud avrebbero tentato di assassinare Kim Jong-un. Ma se si domanda a qualcuno per strada se la Corea del nord determinerà davvero le prossime elezioni presidenziali, la risposta è quasi sempre: qui si vota per la Corea del sud.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.