Moon Jae-in (foto LaPresse)

Moon e la Corea blu

Giulia Pompili

Oggi si vota a Seul, con un occhio al nord e uno alle rappresaglie sul turismo dei cinesi. In piazza ce n’è per tutti, ma il favorito è l’unico che parla di mani tese

Seul, dalla nostra inviata. L’altro ieri la Corea del nord ha annunciato di aver arrestato un altro cittadino americano. Si tratta di Kim Hak-song, dipendente della Pyongyang University of Science and Technology, fermato dalle autorità per atti ostili. Soltanto due settimane fa il regime di Kim Jong-un aveva bloccato un altro cittadino con doppia cittadinanza, americana e coreana, Kim Sang-dok, che faceva parte della stessa università – un ateneo anomalo, l’unico privato, che ospita parecchi docenti stranieri. L’arresto di Kim Hak-song porta a quattro i cittadini americani attualmente detenuti nelle carceri nordcoreane. Come sempre in questi casi la Corea del nord usa la formula degli “atti ostili” per trattenere i cittadini stranieri, e poi trattare il rilascio con le autorità del paese in questione. Ma mentre Pyongyang alzava la posta in gioco con l’America di Donald Trump, il quotidiano del partito, il Rodong Sinmun, nelle stesse ore di ieri pubblicava un editoriale in cui si usavano toni molto diversi con la Corea del sud. “Le tragiche relazioni nord-sud sono state portate a questo punto dai gruppi conservatori che, essendo stati al potere negli ultimi dieci anni, hanno riacceso un periodo di confronto e massimizzato la rivalità politica e militare tra persone della stessa razza”, si legge sul quotidiano nordcoreano. Il riferimento è alle elezioni di oggi a Seul, alla rivoluzione che potrebbe esserci se davvero il candidato favorito, Moon Jae-in, farà quello che ha promesso in campagna elettorale.

 

 

L’elezione di Moon Jae-in – candidato del Partito democratico coreano che nel 2012 era stato sconfitto da Park Geun-hye, l'ex presidente oggi in carcere per corruzione in attesa di processo– potrebbe essere un punto di svolta non solo per la storia coreana, ma anche per tutti i paesi dell’Asia orientale. Il voto di oggi è piuttosto scontato, perché di solito i sondaggi asiatici sono affidabili, e il margine di Moon sul suo candidato più vicino, Ahn Cheol-soo, è molto ampio. E la potenza del messaggio di rinnovamento e di cambiamento di Moon era evidente soprattutto ieri, durante le ultime ore di campagna elettorale.

 

 

L'elezione
di Moon Jae-in, candidato del Pd
della Corea del sud, sarebbe un punto
di svolta per tutta
l'Asia orientale.

La maggior parte dei candidati si è ritrovata nel centro di Seul per un ultimo discorso agli elettori. Il palco della chiusura della campagna elettorale del Partito democratico era piazzato a Gwanghwamun, in posizione strategica, e anche solo simbolicamente era quello più vicino alla Casa Blu, il palazzo presidenziale coreano. Dalle cinque alle otto di sera migliaia di persone hanno preso parte a una grande festa, organizzata e seguita dal servizio d’ordine come in un concerto di piazza. Il blu, il colore del candidato del partito democratico, verso sera era decisamente in maggioranza. E in alto sventolava l’ultima copertina del Time, quella che ha incoronato Moon come “il negoziatore”. Si chiama la “sunshine policy”, la riapertura di tutti i canali di comunicazione con il nord e finalmente la distensione, dopo anni in cui Seul era stata guidata dai conservatori dalla linea dura. Moon vuole riaprire i complessi industriali congiunti con il Nord, Kaesong, che si trova in territorio nordcoreano e a cui la politica ha messo i sigilli ormai da un anno e mezzo – una chiusura che ha fatto male non soltanto all’economia nordcoreana, ma anche a quei sudcoreani che gestivano le industrie lì. E poi Kaesong era il fiore all’occhiello della diplomazia del business, agli antipodi rispetto alla richiesta dei conservatori e della Casa Bianca di inasprire le sanzioni economiche contro la Corea del nord. E’ per questo che i critici accusano Moon di voler stare al gioco dei nordcoreani. Per lui si tratta invece di riprendere in mano un problema da troppo tempo lasciato nelle mani di America e Cina.

 

  

Ieri in piazza però l’ombra della Corea del nord non c’era. E non c’è stata nemmeno quella degli attentati: domenica è stato il giorno del bagno di folla dei candidati, e gli organizzatori della campagna elettorale di Moon hanno perfino messo in piedi un “free hugs event”, abbracci gratis, a Hongdae. Poco prima c’era stato un problema con una presunta minaccia di morte online, e quindi alla fine hanno selezionato ventidue persone che sono state abbracciate da Moon, di quelle che proprio ne avevano bisogno (le regole le ha rivelate il Korea Times: persone che non avevano mai avuto una relazione affettiva, persone che allevano cani e gatti randagi, persone che compivano gli anni, e disoccupati).

   

 

"Blame on China" funziona alla grande, persino l'inquinamento che fa saltare i pic nic tradizionali è colpa
di Pechino

Se c’era una presenza straniera, in piazza, ieri, era quella cinese: davanti all’ambasciata americana, che si trova su un lato di Gwanghwamun, dalla parte opposta rispetto al ministero dell’Unificazione, da giorni sosta un attivista anti Thaad. Il Thaad è lo scudo antimissilistico istallato dagli americani a Seongju, un paio di ore a sud di Seul. In teoria dovrebbe proteggere dai missili nordcoreani, ma secondo Pechino, Washington usa i suoi radar per controllare la Cina. E’ per questo che qualche mese fa i cinesi hanno iniziato un violento boicottaggio economico secondario, e cioè verso la Corea del sud – colpevole di aver accettato l’ordine americano sul Thaad. A Chinatown, a Seul, i negozianti lamentano molto l’assenza dei turisti cinesi (“Siamo sul 70-80 per cento di incassi in meno al giorno”, dice la commessa di un negozio di cosmetici), ed è ancora più evidente sull’isola sudcoreana di Jeju, una delle più frequentate dalla Cina. Ma se Pechino ha imposto ai gruppi organizzati di non vendere più pacchetti con destinazione Corea del sud, la verità è che il turismo individuale a Seul c’è eccome. “Sì, lo affittano solo i cinesi. Sono di meno quest’anno, ma ci sono”, dice al Foglio la proprietaria di un negozio che affitta hanbok, i vestiti tradizionali coreani, che si usano per visitare l’antico palazzo di Gyeongbokgung. E durante questo fine settimana c’è stata pure “l’emergenza inquinamento”. “Bisogna mettere la mascherina, non stare all’aperto”, dice Sohyeon, che fa parte dei migliaia di coreani che hanno deciso di saltare il tradizionale appuntamento del pic-nic della prima domenica di maggio. Ma come mai, così? “E’ colpa della tempesta di sabbia cinese”. In realtà anche ieri i valori di polveri sottili a Seul erano superiori a quelli di Pechino, dove la tempesta di sabbia invece c’è stata. Ma il blame on China funziona, in questo periodo. “No Thaad Yes Peace”, è scritto su uno dei cartelli dell’attivista di fronte all’ambasciata americana, ed è uno dei pochissimi in lingua inglese e quindi rivolto soprattutto ai media stranieri, che in questi giorni sono una cospicua presenza a Seul. L’attivista se ne sta lì, per ore, rivolto verso l’edificio statunitense protetto da almeno sei pullman della polizia e una catena umana di uomini. E’ tipico delle proteste coreane: la stessa cosa, un anno fa, con la stessa modalità, la facevano davanti alla Casa Blu gli attivisti per la Verità sul Sewol – il traghetto affondato tre anni fa che uccise 304 persone. Il presidio dei volontari per la Verità sul Sewol è ancora lì, da più di due anni, in fondo a piazza Gwanghwamun. Dalla tragedia di quel traghetto sono nate le contestazioni contro la presidente Park, le oceaniche manifestazioni che si svolgevano proprio qui tra l’ottobre e il novembre scorso, quelle che hanno portato all’impeachment e alla sua deposizione, il 10 marzo scorso. Sono i volontari del Sewol ad aver innescato la mobilitazione. “Oggi chiediamo al prossimo presidente di riportarci i resti dei sei ancora dispersi”, ci dicono. Ma chi sarà, il prossimo presidente? “Avremmo voluto Shim Sang-jung, l’unica donna”, dice Lin, una signora sulla quarantina che ferma i passanti per firmare la petizione. La candidata Shim, del Partito per la Giustizia, durante la campagna elettorale ha spesso indossato la spilletta con il fiocco giallo del Sewol. “Ma il suo partito è troppo piccolo, non vincerà, quindi adesso appoggiamo Moon”.

 

 

Moon vuole trattare direttamente
con Pyongyang:
per i suoi critici
(e in piazza ce ne sono) fa solo il gioco
dei nordcoreani

Un chilometro più a nord, verso il palazzo del comune, c’è l’altra parte della Corea. Quella che alle manifestazioni spontanee non ha mai creduto, e che considera la deposizione dell’ex presidente Park Geun-hye un “complotto della stampa occidentale”, rappresentata spesso con le fattezze di un cane. Al presidio permanente, dove si dorme nelle tende, ci accoglie il servizio d’ordine in tuta mimetica. Ci offre del caffè e ci consegna la dichiarazione ufficiale: “Siamo i volontari del patriotic camp situation room. Amiamo la Repubblica di Corea e siamo fieri del nostro paese”. C’erano antenati patriottici in questo paese, che hanno combattuto delle guerre, e però oggi non ce ne sono più: “Ci sono forze che sostengono il nostro nemico, la Corea del nord. Si nascondono tra i media, nelle scuole, nelle organizzazioni religiose, in Parlamento. Hanno mentito per mettere sotto impeachment la presidente Park e ora arrestano una innocente. Noi combattiamo questa ingiustizia”. Su una delle tende è appesa la fotografia di “Sir” Rex Tillerson, segretario di stato statunitense, in mezzo a molte bandiere americane e sudcoreane. Intorno alle cinque del pomeriggio di ieri, anche il candidato di quest’altra Corea appare per l’ultimo saluto agli elettori. E’ Hong Jun-pyo, del Liberty Korea Party. Ad attenderlo ci saranno un centinaio di manifestanti, per lo più anziani, molti veterani, qualcuno in mimetica. Quasi tutti sono arrivati da un pullman che è ancora parcheggiato sul ciglio della strada. C’è una banda che suona marcette militari. Nessuno di loro ha voglia di parlare con il Foglio.

  

 

Nella Chinatown
della capitale sudcoreana negozi
in rivolta. Pechino
si vendica del sistema missilistico americano Thaad

L’ultimo comizio elettorale di Moon Jae-min, più che un ultimo comizio, è stata una festa post insediamento. I ragazzi ma anche i meno giovani hanno sventolato i palloncini blu e gli smartphone per ore, e non si sono lasciati rovinare l’allegria da qualche momento di tensione provocato dai sindacati – un gruppo che sempre lì, nella piazza dove tutto succede in Corea del sud, da tre settimane sostiene cinque sindacalisti in sciopero della fame sul tetto di un palazzo. Moon ha detto che assumerà 12 mila impiegati pubblici, ma che non toccherà l’economia coreana con grandi riforme, non per il momento. Nel frattempo, i coreani stanno scommettendo per la seconda volta negli ultimi cinque anni sul loro futuro, e sulla possibilità di una guerra con la Corea del nord. Se dovessero davvero scegliere il candidato che tende una mano a Kim Jong-un, sarebbe già una rivoluzione.

 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.