Barack Obama fa sci d'acqua in vacanza con Richard Branson

Cosa c'è dietro alle mosse di Obama per arginare Trump

L'ex presidente è iperattivo. Dalla suite di Kalorama, Valerie Jarrett governa la strategia obamiana. Un non detto rilevante

Milano. Barack Obama sognava di giocare a golf, scrivere libri di memorie da 65 milioni di dollari con Michelle e coltivare la sua eredità politica triangolando con la filantropia, antica arte che compete agli ex presidenti. Le iperboliche uscite di Trump lo hanno costretto a cambiare i programmi. Il presidente accusa Obama di aver riempito di cimici la Trump Tower, di essersi fatto calpestare dalla Russia di Putin e di avere liberato 122 detenuti di Guantanamo che poi sono tornati all’attività terroristica, anche se 113 di questi erano stati scarcerati da George W. Bush.
   
Hoover detestava Roosevelt, Truman e Eisenhower non si rivolgevano la parola, Nixon era certo che Johnson lo tenesse sotto controllo durante la campagna elettorale, Reagan dava la colpa a Carter per qualsiasi cosa, ma nessuna faida presidenziale compete con quella odierna. La sobria smentita sulle accuse di spionaggio (“né il presidente Obama né i funzionari della Casa Bianca hanno mai ordinato di sorvegliare un cittadino americano”) non è che l’ultimo episodio della rissa permanente che vede i fedelissimi di Obama schierati in prima linea. Dalla suite riservata nella reggia degli Obama a Kalorama, la superconsigliera Valerie Jarrett organizza la strategia della resistenza e, già che c’è, si prende cura della sfera di influenza obamiana presso la sinistra lacerata.

 

L’elezione del moderato Tom Perez a capo del Partito democratico è una testimonianza dell’autorità dell’ex presidente. Denis McDonough, ex capo di gabinetto, dice che Obama non sta attaccando Trump, si sta semplicemente difendendo da accuse infamanti e fasulle: “Negli ultimi giorni stiamo assistendo a ex colleghi che si scagliano contro falsità quando è necessario”. L’opera degli obamiani, dicono, è dettata dalle necessità della salvaguardia della democrazia da un usurpatore, non dalle faziose passioni della politica. Impedire il degrado autoritario è il compito che i consiglieri obamiani si autoaffidano, complimentandosi fra loro per il servizio reso alla più importante democrazia del mondo. Questo senso di un compito superiore, di una missione vitale, permette all’ex direttrice della comunicazione, Jen Psaki, di costruire una metafora che rimanda ai tempi in cui i presidenti risolvevano le contese a pistolettate: “Servono due persone per duellare, e soltanto una sta puntando l’arma all’avversario. L’unicità dei tempi consiste nel fatto che un presidente regnante disinformato e pazzo punta la pistola verso un ex presidente”.

 
In questa situazione unica, senza precedenti, una patologica anomalia della storia, nemmeno le garanzie democratiche impresse nel glorioso sistema istituzionale sembrano essere sufficienti. Il “check and balance” e il gioco di contrappesi concepiti dai Padri fondatori sembrano improvvisamente vulnerabili, inadeguati alla guerriglia obliqua intentata da un presidente che vìola ogni tabù e oltrepassa ogni confine. Tutto questo non soltanto legittima l’iperattivismo del clan di Obama, ma lo rende doveroso, lo trasforma in imperativo categorico politico, secondo l’implicita convinzione che nemmeno il più venerato dei sistemi possa reggere alla pressione di questi marosi della storia.

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