Le rovine di Palmira (foto LaPresse)

Perdere Palmira

Daniele Raineri

Contro lo Stato islamico, i russi e Assad fanno meno di americani, turchi e libici. E ora si vede

Roma. I violini non suonano più nel teatro romano di Palmira. Lo Stato islamico in condizioni d’asfissia che non prendeva più una città dalla primavera 2015, che è appena stato sradicato da Sirte, in Libia (dai libici, con l’appoggio dei jet americani), che è sotto assedio a Mosul in Iraq e che è sotto pressione nel nord della Siria – dove i turchi e i ribelli siriani avanzano su al Bab e i curdi aspettano gli ordini americani fuori da Raqqa – ha appena dimostrato di essere ancora capace di conquistare territorio e ha sfondato il segmento più debole del fronte: il deserto occidentale di Homs, in Siria, e la città-simbolo di Palmira. Il gruppo estremista ha approfittato di un paio di fattori. Il primo è la negligenza imperdonabile: quell’area è sotto il controllo nominale del governo siriano e dei russi – che tengono alcuni elicotteri in una base poco lontana – ma entrambi, siriani e russi, da sei mesi hanno spostato tutta la loro attenzione e le loro risorse militari in un’altra parte del paese: nella città di Aleppo.

 

Ad Aleppo lo Stato islamico non c’è dal gennaio 2014 – è stato da tempo messo all’angolo nella parte orientale di quella regione – e c’è invece un assortimento di gruppi che fanno la guerra al presidente Bashar el Assad e include fazioni di al Qaida ma anche fazioni nazionaliste che da anni ricevono l’appoggio di governi occidentali. Circa cinquantamila uomini, ha detto la settimana scorsa un ufficiale americano al Washington Post. Dal punto di vista politico queste ultime fazioni sono le più pericolose per Assad, perché rappresentano un’alternativa. In questo contesto, la guerra contro lo Stato islamico non è una priorità russa – tanto tutti fanno la guerra allo Stato islamico e impegnano risorse e uomini – ma prendere Aleppo sì, ed è quello che sta succedendo in queste ore grazie a una campagna urbana in stile ceceno. A questo proposito ecco cosa dice a Reuters una fonte definita come “un alto ufficiale” del regime: Assad ha deciso di non occuparsi di Raqqa, che è diventata la capitale di fatto dello Stato islamico in Siria, e di considerarla per ora un problema di cui devono occuparsi gli americani. “Il regime si è scordato di Raqqa da tempo – dice l’ufficiale – Lasciamo che a pensarci siano quelli allarmati da Isis”.

 

Il secondo fattore è la consistenza scarsa delle forze militari lasciate a guardia di Palmira, che un concerto organizzato dal governo russo a maggio aveva consacrato come città-simbolo della vittoria della civiltà contro la barbarie – e che proprio per questo non doveva essere abbandonata per la seconda volta all’avanzata islamista. I testimoni raccontano scene di panico tra i soldati dell’esercito siriano, che in qualche caso hanno scambiato per attacchi terroristi le decine di raid aerei eseguiti dai piloti russi per bloccare gli islamisti attorno alla città. “Esercito siriano” del resto è ormai poco più di una definizione di comodo, perché è stato svuotato da anni di perdite e diserzioni e rimpiazzato da un assembramento pulviscolare di milizie a volte locali e a volte straniere (ora arrivano anche duecento militari ceceni mandati da Ramzan Kadyrov), a volte addestrate meglio di un reparto regolare e a volte tragicamente inadeguate. Una fonte pro Assad racconta al sito Daily Beast che lo Stato islamico per arrivare così vicino avrebbe corrotto un ufficiale assadista, e sembrerebbe un racconto inverosimile se soltanto a fine ottobre non fosse successo che cento estremisti sono entrati a Kirkuk, in Iraq, con un raid notturno a sorpresa grazie allo stesso stratagemma: una mazzetta ai posti di blocco. Anche la potenza militare russa magnificata da una propaganda molto efficiente in realtà non può coprire tutto e soccorrere gli assadisti in tutti gli angoli del paese – da qui la ragione degli accordi sottobanco di desistenza con la Turchia al nord.

 

Così lo Stato islamico ha potuto vivacchiare ai margini della città, senza mai ricevere un colpo decisivo, e giocare a rimpiattino per mesi con gli elicotteri russi tra colline aride molto basse che in pratica non offrono alcuna copertura, fino a sferrare l’attacco decisivo. Senza dubbio ha anche contato molto l’elemento “città-simbolo”: Palmira ha pochi abitanti (45 mila in tempi normali, la metà di Sirte, liberata la settimana scorsa) ma offriva al costo di cinque chilometri di avanzata la possibilità di una vittoria con risonanza internazionale, e così è stato. Può essere che su quel fronte a dare gli ordini ci sia il nuovo comandante militare straniero dello Stato islamico, il tagiko Gulmurod Khalimov, ex colonnello delle forze speciali passato al jihad, che parla russo e quindi potrebbe avere maggiore affinità nel confronto diretto con le forze speciali e i piloti mandati da Mosca. Non c’è dubbio che una campagna militare, presto o tardi, riprenderà Palmira. Ma la liberazione della città era l’unico grande fatto concreto offerto dalla Russia nella campagna globale contro lo Stato islamico, e per ora non è rimasto granché. 

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)