(foto LaPresse)

Tra Brexit e Trump, così la “right nation” è diventata la nazione arrabbiata (e nostalgica)

Paola Peduzzi
Quelle affinità fra il tycoon e il rifiuto per l’Ue che fanno molto anni Cinquanta. Interviste.

New York, dalla nostra inviata. Dice: è come la Brexit. La risalita di Donald Trump nei sondaggi, il coro unanime e globale di discontento per questa zampata finale, la sicurezza con cui molti ripetono che non è possibile, Trump non può andare alla Casa Bianca, fa tornare alla mente la dinamica della Brexit, che non fu ovviamente soltanto incapacità previsionale – per quanto i sondaggi fossero molto più ravvicinati di quelli americani e i sondaggisti britannici molto meno rigorosi. “Pensavo che la Brexit avrebbe perso e oggi continuo a pensare che Hillary Clinton vincerà, anche se di poco”, dice al Foglio Adrian Wooldridge, autore e commentatore dell’Economist, appena rientrato a Londra da un viaggio negli Stati Uniti.

 

“Hillary è più organizzata sul territorio, la macchina elettorale è rodata e si è mossa con straordinario anticipo: non dobbiamo dimenticarci che le elezioni, al fondo, si riducono a questo: a convincere ogni elettore ad andare a votare. Su questo, Hillary è nettamente più avvantaggiata rispetto a Trump”, che si è mosso tardi, che ignora i big data e le profilazioni e che tende ad affidarsi semplicemente all’improvvisazione. Wooldridge insomma pensa che il fantasma della Brexit non si paleserà oggi nelle urne, ma il parallelismo tra i due fenomeni “è forte”. Anzi, “sono quasi gemelli”, azzarda, così come si comportano da fratelli Trump e il suo “surrogato” britannico privilegiato, Nigel Farage, ex leader del partito indipendentista inglese Ukip e grande sostenitore del candidato repubblicano (Farage è della stessa pasta di Rudy Giuliani: più Trump la spara grossa, più tocca spararla grossa per difenderlo, nessuno dei due si tira mai indietro).

 

Ma al di là degli animatori di questi fenomeni, l’affinità più grande riguarda la “protesta”, dice Wooldridge, questo “enorme spirito di protesta” che ha preso il Regno Unito, l’America ma anche molta Europa. E lui che è stato lo studioso della “right nation” – scrisse il libro definitivo, “La destra giusta”, assieme all’allora direttore dell’Economist John Micklethwait – oggi dice: “Con il trumpismo la ‘right nation’ è diventata l’‘anger nation’, la nazione arrabbiata”.

 

Anche il Regno Unito era arrabbiato quando ha votato per la Brexit e, nonostante lo choc e, a tratti, il rimpianto post referedum, continua a esserlo. “C’è una ragione economica – spiega Wooldridge – che è anche la più nota: i marginalizzati, quelli che si sono sentiti traditi dallo sviluppo degli anni Novanta e in seguito hanno dovuto sostenere costi altissimi per assorbire gli choc degli anni Duemila, stanno mettendo in discussione l’impianto stesso su cui si fondano le nostre democrazie. Sono contro la globalizzazione perché l’apertura, secondo loro, li ha impoveriti. Ma c’è una ragione culturale più profonda che fa sì che molti, in particolare la working class bianca, abbiano il desiderio di farsi proteggere da leader come Donald Trump: le nostre società sono diventate più multiculturali, più liberali, con più diritti anche per chi non li aveva mai avuti, e questo fa sentire la working class bianca indifesa e dimenticata”. La spaccatura tra apertura e chiusura che fotografa alla perfezione il momento che stiamo vivendo, più della consueta dicotomia destra-sinistra, risulta evidente se si confrontano i voti delle grandi metropoli con quelli delle midlands. Londra vs. il nord dell’Inghilterra (per altro laburista e senza immigrati: eppure), New York o San Francisco vs. l’entroterra. La spaccatura non è certo nuova, è che adesso è profondissima e non s’arresta nemmeno di fronte a leader poco invitanti e poco stabili come Donald Trump.

 

James Blitz, autore del “Brexit Briefing” del Financial Times, conferma la profondità della ferita (parla un italiano stupendo, è stato corrispondente a Roma dalla seconda metà degli anni Novanta ai primi anni Duemila): “Questi fenomeni di protesta si muovono sempre sulle stesse linee: centro-periferia; ricchi-poveri; anziani-giovani”, e c’è una forte connotazione bianca. Nell’America amante delle etichette demografiche, si dice che Trump è il frutto della “rabbia del maschio bianco”. “A volte il reddito non conta in modo preponderante – spiega Blitz – Basti pensare agli anziani inglesi: hanno ricevuto buone pensioni, hanno conosciuto la pace, hanno comprato una casa, insomma non hanno avuto in media una brutta vita. Eppure hanno votato per la Brexit, per un ritorno al passato, a uno status quo precedente, in cui la maggioranza bianca aveva stabilità e custodiva potere e identità nazionali. Il voto di protesta oggi esprime un’enorme nostalgia per gli anni Cinquanta”.

 

Comunque vada l’elezione americana – se i sondaggi dovessero sbagliare, ci sarebbe aderenza completa tra Trump e la Brexit – il trumpismo non è destinato a finire. “E’ in atto un processo di disgregazione molto forte – dice Wooldridge – La globalizzazione si smantella opponendosi ai trattati commerciali, rifiutando ogni suggerimento che venga dalle cosiddette élite”, che ormai sono considerate incapaci di gestire il potere (Barack Obama che va a Londra per dire agli inglesi di non fare scemenze è percepito nello stesso modo nelle campagne americane, per dire). Ma la disgregazione è anche politica: “Nascono nuovi partiti, quelli che ci sono sempre stati a volte risultano irriconoscibili”. Pensa alla sua Inghilterra, Wooldridge, dice che “ci siamo dotati di un sistema democratico proprio per creare ordine e ora questa democrazia ci restituisce una mancanza di controllo assoluta”, ironia massima che in questo momento attanaglia Londra alle prese con un dilemma impossibile: vale più il voto popolare o il voto del Parlamento che pure rappresenta il popolo? Negli Stati Uniti che per ancora qualche ora possono considerare il trumpismo un incidente evitato, la crisi non è molto diversa. “In quest’ultimo viaggio americano – dice Wooldridge – la domanda più rilevante che ho sentito porre da tutti è stata: da dove riparte l’establishment del Gop per riconquistare il voto della working class bianca?”.

 

I liberal hanno già perso quest’elettorato, ma i repubblicani se lo sono fatti scippare da Trump, il quale “non ha alcuna intenzione di scomparire, ha in progetto un nuovo gruppo mediatico e la volontà precisa di non disperdere il proprio consenso”. Anche James Blitz dice che il trumpismo non finisce oggi, pure se ci fosse una sconfitta, e aggiunge: “Ci chiediamo spesso se una vittoria di Trump aiuterebbe più il Regno Unito o la Brexit. Si sa che Trump è a favore della Brexit, ma converrebbe davvero al Regno Unito affidarsi a un leader anti europeo come Trump?”. Le contraddizioni di un grande movimento nostalgico di protesta sono sparse ovunque, ma Hillary piuttosto, come se la caverebbe da presidente con il trumpismo? “Ah – sospira Wooldridge – Avrebbe tanti problemi. Non ha ancora nemmeno risolto la questione Bernie Sanders”.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi