Una caricatura di Trump con la scritta "diablo" (diavolo) al Dublin Temple bar (foto LaPresse)

L'algoritmo collettivo

I conservatori lamentano da sempre che i media tendono a sinistra, ma nell’èra di Trump il vizio è scientifico. Così l’elezione è diventata una sfida fra le persone normali e i minus habens in roulotte.

New York. E’ all’incirca dall’invenzione della stampa a caratteri mobili che i conservatori si sdegnano della tendenza a sinistra dei media, quasi sempre con ottime ragioni. Negli ultimi decenni sono state accumulate prove di tutti i tipi per mostrare la profonda consonanza fra la direzione politica dei grandi giornali e network e la visione del mondo liberal, e la questione non riguarda innanzitutto gli espliciti strumenti di lotta sul genere Msnbc, omologo di Fox News, ma il bias che s’annida nell’informazione generalista, con le sue stucchevoli pretese di imparzialità. Quando Donald Trump alla cena di Al Smith si congratula con il team di Hillary, e in questo include anche i giornalisti del New York Times, del Washington Post e via discorrendo, esprime un concetto chiaro a chiunque non sia ubriaco di falsa coscienza o non abbia passato gli ultimi quarant’anni su un anello di Saturno, senza wi-fi. Non occorre nemmeno sapere qualcosa delle tesi sull’egemonia culturale per notare che il legno dell’informazione è storto verso sinistra. Il problema dei conservatori è che a forza di denunciare il tic liberal dei giornalisti hanno cristallizzato le critiche in un gigantesco e inefficace luogo comune, come tale dribblato senza sforzo dal consenso prevalente. Il grido “al bias! al bias!” è diventato il nuovo “al lupo! al lupo!”. Portando al parossismo le dinamiche del vizio liberal, Trump ha però riportato in vita la trama un po’ stantia, perché questa volta il lupo non è soltanto annunciato, ma si vede a occhio nudo.

 

Se una componente di compiaciuto crogiolarsi nel ruolo di vittime esiste, esiste anche il fatto che il 91 per cento della copertura televisiva ricevuta dal candidato repubblicano è stata negativa, secondo uno studio del Media Research Center. I giornali che storicamente non concedono endorsement o lo fanno soltanto in casi di grave pericolo per le istituzioni democratiche si sono espressi a favore di Hillary, dal pensoso Atlantic al leggerissimo Usa Today. Soltanto sei quotidiani in tutto il paese sostengono Trump, e l’articolo di Politico che racconta di queste testate minoritarie è un saggio di metagiornalismo sul bias: la dirigenza del St. Joseph News-Press, quotidiano del Missouri, è rappresentata come un ammasso di ingenuità e incompetenza, e si riporta come implicitamente stupida l’affermazione del direttore: “Non abbiamo guardato cosa facevano gli altri”. Una frase che dovrebbe essere tatuata su tutte le schiene dritte del giornalismo perbene, mentre nel mondo rovesciato la disconnessione fra il piccolo quotidiano locale e l’élite giornalistica che detta il passo alla mentalità dominante è un peccato mortale. E dire che Politico tante volte è stato accusato di intelligenza con il nemico conservatore.

 

Facebook e Google hanno portato il bias a livello dell’algoritmo. Il Wall Street Journal ha riportato di un litigio ai piani alti del social di Zuckerberg, dove alcuni volevano censurare le esternazioni di Trump, classificandole come hate speech. E’ toccato all’amministratore delegato fermare una fronda che era arrivata a minacce di dimissioni e quant’altro: “Non possiamo creare una cultura che dice di essere interessata alla diversità e poi esclude quasi metà del paese perché sostiene un candidato”, ha scritto l’anima liberal di Zuckerberg in una nota interna.

 

Nel frattempo ha dovuto anche respingere le pressioni di chi vuole rimuovere Peter Thiel dal board dell’azienda, con l’accusa di sostegno a Trump. Lo stesso Zuck, però, ha nel frattempo ammesso che secondo i criteri del social la proposta di chiudere le frontiere per i musulmani equivale all’hate speech. YouTube, dal canto suo, ha una spiccata tendenza a censurare o a esporre in forma protetta video conservatori. E non si parla delle tirate razziste della alt-right, ma di lezioni di opinionisti e accademici come Ayaan Hirsi Ali, Arthur Brooks, Jonah Goldberg, Alan Dershowitz, Nicholas Eberstadt e Christina Hoff Sommers. Nell’èra di Trump il bias liberal è passato da protezione della presunta ragione della sinistra contro il presunto torto della destra alla sistematica delegittimazione dell’avversario. Sui giornali la sfida elettorale non è tra due visioni del mondo, ma fra le persone normali e i minus habens che vivono nelle roulotte. Su questi ultimi, evidentemente, è lecito riversare tutto l’hate speech che si vuole.