Hillary Clinton (foto LaPresse)

Quanto sono eccitati i clintoniani, non è che questo trionfalismo spietato è fortemente prematuro?

Paola Peduzzi
L'entusiasmo del team di Hillary è incontenibile. I sondaggisti si divertono a pubblicare mappe elettorali dell’America tinte di blu. I repubblicani continuano a formulare necrologi sul loro candidato. Ma mentre ci agghindiamo da clintoniani pensiamo a quanto eravamo sicuri del voto sulla Brexit.

Dice che basta, è finita, Donald Trump non può recuperare, Hillary Clinton è destinata a vincere, sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America. Tutti i sondaggi sul candidato repubblicano mostrano linee che si inabissano verso il basso, persino la rilevazione sull’entusiasmo dice che non ce n’è: a settembre Trump aveva un 12 per cento di vantaggio sul “voter enthusiasm”, secondo l’Abc, rispetto a Hillary, mentre ora l’elettorato clintoniano dice che si sente fighissimo a votare per lei, non lo fa perché Trump è invotabile, lo fa perché lei è lei, e si merita di diventare presidente (a settembre soltanto il 36 per cento degli intervistati si definiva “molto entusiasta”, ora questa percentuale è al 52 per cento). I giornali si sono schierati per la maggior parte a favore di Hillary, anche molte testate storicamente di destra hanno cambiato posizionamento per l’occasione, mentre da giorni leggiamo articoli dettagliati ed eccitati su come la candidata democratica non voglia accontentarsi di vincere la Casa Bianca, ambisce alla riconquista del Congresso, vuole sbaragliare Trump, annientare il Partito repubblicano, dimostrare che dopo un errore così, dopo un candidato così, dopo una campagna così, non ci si risveglia il 9 novembre chiedendo scusa e pretendendo un perdono.

 

Il trionfalismo del team di Hillary è incontenibile, tutti i super-surrogati (che termine orribile) sono schierati: gli Obama che con le campagne elettorali non hanno rivali (e sono dei cecchini), Bill Clinton, Joe Biden, tutti a far campagna dove si intravvede la possibilità di un ribaltone a favore dei democratici. Le divisioni interne sono azzerate, la famiglia democratica vuole mostrarsi unita e felice e collaborativa, ci amiamo tanto e da sempre, ormai soltanto Donald Trump cita Bernie Sanders sperando di ottenere in cambio qualche muso lungo, ma non riesce più nemmeno lui a far tremare i democratici (anzi, i democratici ridono, guardano il “Saturday Night Live” e ridono e si prendono pure la libertà di dire che è un peccato che questa infernale campagna elettorale stia finendo perché l’imitazione di Trump fatta da Alec Baldwin è troppo bella, come faremo senza).

 

Intanto i repubblicani continuano a formulare necrologi sul loro candidato, chi non lo ha mai sostenuto lo ripete in continuazione, sperando di salvarsi dal giudizio impietoso che pende su tutta la classe dirigente del Gop; persino l’ostinato Karl Rove, che quattro anni fa disse che Mitt Romney avrebbe vinto anche quando ormai la sconfitta era matematica, oggi sostiene che le possibilità di vittoria di Trump sono praticamente pari a zero. I sondaggisti si divertono a pubblicare mappe elettorali dell’America tinte di blu, Hillary può anche perdere in stati solitamente necessari per arrivare alla Casa Bianca tanto è avanti nel conteggio dei grandi elettori che portano al raggiungimento di quota 270. Dalla bolla trumpiana si alzano voci che ridicolizzano la sicumera clintoniana, ma siccome i personaggi che animano quella bolla hanno perso da parecchio la loro credibilità, anche tali voci sembrano soltanto rigurgiti di disperazione.

 

Sarà che la festa si prospetta grandiosa e che davvero la scelta di nominare Trump si rivelerà catastrofica e che i democratici infliggeranno ai repubblicani un ko elettorale di quelli memorabili. Ma mentre ci agghindiamo da clintoniani della prima ora salvo poi sottolineare che Hillary è più di destra che di sinistra, arricciare il naso e ricordare che un po’ “nasty” lo è da sempre, pensiamo alla Brexit, a quanto eravamo certi che gli inglesi avrebbero votato quel che piaceva a noi, a Obama, ai giornali, all’universo intero: i sostenitori della Brexit andarono a letto presto nella notte del referendum, sicuri della sconfitta. Nella seconda stagione di “West Wing”, c’è un flashback sulla campagna delle primarie di Jed Bartlet in cui il suo staff gli consiglia una strategia elettorale in cui tutto sembra sicuro e prestabilito e lui commenta: “Bene, e così abbiamo anche risparmiato agli elettori la fatica di votare”.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi