Il mondo dell'America First

Gli alleati guardano torvi gli istinti isolazionisti che Trump ha scatenato, ma c’è poi tanta differenza con il paradigma del disimpegno affermato da Obama? Le elezioni fra il “dito medio” e lo status quo.

New York. “La leadership degli Stati Uniti è necessaria. Non ci sono sostituti”, dice fra un branzino e i frutti di bosco con la panna montata offerti dal Financial Times David Petraeus, l’ex generale diventato consulente di Wall Street, mentre gli alleati dell’America nel mondo soppesano con circospezione, e talvolta sconforto, l’ascesa di un candidato che ha fatto del vecchio motto isolazionista “America First” il “tema dominante” della sua campagna. Donald Trump, inteso come ambasciatore del disimpegno americano e biondo Ulisse che si fa legare all’albero della nave per resistere alle “false sirene del globalismo”, è l’incognita geopolitica di una tornata elettorale che le cancellerie amiche di Washington, dall’Europa all’Asia, guardano di traverso anche al di là delle idiosincrasie e delle riserve solite intorno a eccessi e inaffidabilità del personaggio.

 

C’è una domanda che Trump ripropone in modo urgente, ma che in qualche modo lo supera: il mondo può vivere con una “America First”? L’ambasciatore del Giappone negli Stati Uniti, Kenichiro Sasae, in un incontro pubblico non s’è fatto sfuggire il nome di Trump, ma il riferimento era chiaro: “Nelle elezioni presidenziali ci sono discussioni se l’America debba assumere una posizione isolazionista. Non voglio vedere un’America di questo genere. Voglio vedere un’America forte, che non pensa solo a se stessa”. Anders Fogh Rasmussen, ex segretario generale della “istituzione obsoleta” per eccellenza nei discorsi di Trump, la Nato, vede “troppi segni del ritiro americano”, ma il New York Times fa una sintesi rivelatrice delle sue affermazioni: “Rasmussen considera le idee di Trump sulla Nato un’accelerazione degli sforzi dell’Amministrazione Obama nell’incoraggiare una maggiore condivisione dei costi”.

 


Donald Trump commenta i risultati dell'Indiana (foto LaPresse)


 

Una accelerazione, dunque. Barack Obama è il presidente che, al tramonto del suo secondo mandato, va lamentandosi pubblicamente dei “free riders”, gli alleati scrocconi che s’appoggiano a peso morto sugli ideali e il budget degli Stati Uniti, ma era lo stesso presidente che nel 2011 aveva dato mandato a Bob Gates, segretario della Difesa di scuola realista, di dare una strigliata fra amici agli alleati della Nato che non rispettano i patti di spesa. Con il solito linguaggio diretto, sapendo di evocare un passato in cui l’isolazionismo americano era per qualcuno il paravento delle simpatie per i fascismi europei, Trump parla di “America First”. Obama aveva scelto per un più sobrio “Nation Building at Home”, che suonava come la fase in cui il paese poteva rinsavire da una sbornia di ambizioni globali, e l’elettorato lo aveva votato anche per le promesse di accorciare l’ombra americana nella meridiana geopolitica. Lo ha fatto, nel suo modo ambiguo e ammiccante, e ora che Trump mette sul tavolo la versione accelerata di quella politica, gli alleati sono improvvisamente preoccupati per gli equilibri globali.

 

Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hong Lei, fra il diplomatico e il sibillino ha detto: “Speriamo che i cittadini degli Stati Uniti di tutte le estrazioni vedano le relazioni bilaterali da una prospettiva ragionevole e oggettiva”, dove l’oggettività è la realtà dei commerci che Trump vorrebbe strangolare a suon di dazi. Stefano Stefanini, ex ambasciatore italiano alla Nato, ha spiegato bene, sempre al Times, che la dottrina che Trump ha una portata più vasta del personaggio: “L’errore che l’Europa potrebbe fare è pensare che il fenomeno Trump scompaia. I sentimenti che Trump rappresenta influenzeranno certamente la prossima amministrazione o il prossimo Congresso”. Anche una eventuale Hillary Clinton alla Casa Bianca, lei che non potrebbe essere più lontana dall’ideologia di “America First”, non potrebbe prescindere dalla tentazione del disimpegno che serpeggia in modo trasversale nel dibattito politico. Questo complica i calcoli di una campagna elettorale in cui, come dice il Washington Post, Trump può avere qualche chance solo se riesce a rappresentare la corsa come “la scelta fra ‘Trump, un dito medio allo stato delle cose’ e ‘Clinton, la scelta di avere ancora la stessa cosa’”. Nell’ambito della politica estera non è nemmeno chiaro quale sia la scelta discontinuità e quale rappresenti l’accelerazione di un trend avviato.