Drone in volo (foto LaPresse)

Non sarà il boom dei droni a incrinare la supremazia americana

Andrea Gilli
Sostiene Peter W. Singer che, per colpa degli aerei senza pilota, gli americani per la prima volta dopo la Guerra fredda hanno perso il monopolio delle tecnologie militari d’avanguardia. Ma ci sono ragioni tecniche, organizzative e politiche per essere più ottimisti. Tutti gli studi.

Se il sottomarino è stato tra le tecnologie militari che più hanno giocato un ruolo centrale nella Prima guerra mondiale, il radar durante la Seconda guerra mondiale e i missili da crociera nel corso della Prima guerra del Golfo, i droni – i famosi aerei senza pilota – sono indiscutibilmente la tecnologia militare che più ha caratterizzato la guerra al terrorismo lanciata all’indomani dell’11 settembre.

 

I droni esistono in diverse configurazioni, piccoli e grandi, ad ala fissa o rotante, armati o non armati, “stupidi” ovvero in grado di operare in automatico (per esempio di sorvolare un dato territorio sulla base di uno scenario pre-programmato) o autonomi, e quindi intelligenti: in grado cioè di compiere scelte complesse grazie alla loro intelligenza artificiale. Anthony Finn e Steve Scheding, nel loro volume “Development and Challenges for Autonomous Unmanned Vehicles: A Compendium” (Springer-Verlag, 2010), discutono nel dettaglio questi aspetti.

 

Durante la guerra al terrorismo, gli Stati Uniti hanno usato droni di diverse dimensioni principalmente per la raccolta di informazioni a terra tramite vari sensori di bordo (in gergo tecnico, “Intelligence, Surveillance and Reconnaissance”). Nel caso di piattaforme disarmate, i dati raccolti sono trasmessi in tempo reale ad altri sistemi che, a loro volta, procedono poi alla neutralizzazione del bersaglio, se necessario. Quando invece i droni sono armati, ovvero dotati di missili di precisione, come è il caso del RQ-1 Predator o del MQ-9 Reaper, è possibile portare a termine immediatamente un attacco. E’ in questa maniera che le file di al-Qaida e di altri gruppi radicali sono state decimate in Afghanistan, Pakistan, Somalia e Yemen. La storia relativa allo sviluppo del Predator è epica e molto americana: si uniscono imprenditorialità, genialità, finanza, difficoltà tecniche e pressante necessità di nuove tecnologie militari per affrontare la minaccia asimmetrica del terrorismo jihadista. Richard Wittle la racconta con precisione nel suo interessante “Predator: The Secret Origins of the Drone Revolution” (Henry Holt & Co., 2014).

 

Man mano che però il numero di attacchi portati a termine con droni armati da parte degli Stati Uniti è aumentato, molti commentatori hanno iniziato ad avere dubbi e preoccupazioni crescenti: prima relativamente alla legalità di questa pratica, poi alla sua legittimità, e successivamente alla sua efficacia. Un volume curato da Peter L. Bergen, della New America Foundation, e Daniel Rothenberg, della Arizona State University, intitolato “Drone Wars Transforming Conflict, Law, and Policy” (Cambridge University Press, 2014), offre un’ampia prospettiva sul tema. Ma il dibattito attualmente più importante riguarda un altro aspetto e, precisamente, il rischio che i droni si possano diffondere facilmente anche a rivali e avversari, con conseguenze negative per la stabilità e la sicurezza internazionale.

 

Tra i primi ad avanzare questa considerazione vi è Peter W. Singer, uno dei massimi esperti di guerra e tecnologia, già enfant prodige della Brookings Institution e autore di un libro proprio su droni e nuove tecnologie militari, “Wired for War: The Robotics Revolution and Conflict in the 21st Century” (Penguin Books, 2009). Nel 2011, Singer notava in un articolo per Foreign Policy che mentre durante tutta la Guerra fredda gli Stati Uniti hanno goduto del monopolio sulle principali tecnologie militari, nel campo dei droni il monopolio americano era andato perduto già molti anni prima. Tanto nel campo accademico che in quello dei policy maker, questo punto di vista è presto diventato dominante: da docenti come Michael Horowitz della University of Pennsylvania, tra i più promettenti accademici nel campo delle relazioni internazionali e autore di “The Diffusion of Military Power: Causes and Consequences for International Politics” (Princeton University Press, 2010) a Daniel L. Byman, esperto di antiterrorismo della Georgetown University, dal Defence science board del Pentagono in un suo fondamentale studio sul ruolo della robotica, “The Role of Autonomy in DoD Systems” (2012), fino a Robert O. Work, attualmente vicesegretario della Difesa, in un interessante rapporto intitolato “20YY: Preparing for War in the Robotic Age” (Center for New American Security, 2012), il consenso tra gli esperti è giunto alla conclusione che la relativa semplicità con cui è possibile produrre e operare droni stia favorendo la loro diffusione. Chiaramente, i primi a uscirne svantaggiati da questo sviluppo sarebbero gli Stati Uniti che, in un futuro non troppo lontano, si troverebbero, in primo luogo, a confrontarsi con nemici in possesso di tecnologie militari avanzate e, secondariamente, a operare in un contesto internazionale caratterizzato da maggiore instabilità e insicurezza proprio per via della diffusione di queste tecnologie.

 

Ma è davvero così? La rivoluzione robotica nel campo militare rischia davvero di indebolire l’egemonia americana? Nel corso degli ultimi cinque anni, abbiamo studiato a fondo quasi tutti i progetti industriali degli ultimi 25 anni lanciati in giro per il mondo e volti alla produzione di varie tipologie di droni. Abbiamo anche analizzato nel dettaglio tutte le campagne militari degli ultimi tre decenni, focalizzandoci in particolare su droni, o tecnologie analoghe quali missili di precisione e sensori ad alta definizione. La nostra analisi, pubblicata sulla rivista accademica Security Studies, non solo mette fortemente in discussione l’idea che i droni si stiano diffondendo velocemente e che questi siano facili da operare, ma anche che gli Stati Uniti possano in qualche maniera essere indeboliti dalla transizione tecnologica in atto.

 

 

Droni facili da produrre? Non è così

 

Partiamo dalle difficoltà relative alla produzione di droni. Da più parti, anche tra gli esperti, si dice che i droni sono facili da produrre. L’esempio fornito è spesso relativo a droni giocattolo disponibili su Amazon. Se però  guardiamo a droni più avanzati e complessi quali il Reaper e il Predator, in grado di volare ad alta quota e a lungo (dalle 24 alle 36 ore), l’evidenza disponibile è nettamente diversa. La Francia, il paese più protezionista al mondo in tema di acquisto di armamenti e secondo solo agli Stati Uniti in termini di tecnologie militari, ha provato a produrre droni a partire dalla fine degli anni Novanta. Ci ha provato in cooperazione con l’Olanda prima, la Germania dopo e l’Inghilterra poi. Tutti questi progetti sono falliti. Nel 2013, il governo di François Hollande ha deciso di acquistare il MQ-9 Reaper dagli Stati Uniti: procedere autonomamente era troppo difficile.
I problemi tecnologici non hanno però riguardato solo la Francia: Turchia, Germania, Russia, solo per citare alcuni esempi, hanno provato a sviluppare droni da osservazione, ma il risultato è spesso stato tra il deludente e il fallimentare. La ragione è semplice e assolutamente analoga alle difficoltà incontrate da Microsoft e Google nello sviluppo di uno smartphone in grado di eguagliare le capacità dell’iPhone: le tecnologie contemporanee non sono facili da imitare in quanto richiedono conoscenze e capacità ampie, profonde e di lunga durata. Lo sviluppo di queste conoscenze richiede tempo e risorse – sia finanziarie sia umane – e qualsiasi attore, sia Microsoft contro Apple che la Russia nel campo dei droni, deve costantemente confrontarsi con il fatto che il divario tecnologico con il proprio avversario non solo è enorme, ma tende anche ad aumentare, a prescindere dalle risorse investite.

 

Assumiamo però che più paesi, soprattutto rivali degli Stati Uniti, siano presto in grado di produrre dei droni avanzati. Significa che ci aspetta un futuro di tensione internazionale e crisi militari? Non è assolutamente detto. Infatti il consenso tra esperti che vede un futuro sempre più instabile a causa della rivoluzione robotica non considera affatto lo sviluppo di sistemi antidrone: ovvero di dispositivi militari volti alla distruzione di droni nemici. Gli Stati Uniti, insieme a Israele, stanno investendo enormi risorse in questo campo. E’ palmare come Cina, Russia o Iran possano anche sviluppare i loro Predator, ma se gli Stati Uniti potranno disporre di tecnologie in grado di neutralizzarli senza difficoltà, la competizione tecnologica torna a vantaggio di chi sta sviluppando i droni del futuro: e quel qualcuno sono gli Stati Uniti.

 

 

L’intelligence e le infrastrutture necessarie

 

C’è però un’altra barriera alla diffusione dei droni e gli esperti hanno ignorato o largamente sminuito questo elemento: si tratta del supporto organizzativo e infrastrutturale di cui qualsiasi piattaforma militare ha bisogno. Ryan Hilger, dell’US Navy, in un interessante articolo del 2013 pubblicato sulla rivista Proceedings dell’US Naval Institute, sostiene per esempio che grazie a sistemi open source quali Google Maps, è ora possibile operare piattaforme militari avanzate senza aver bisogno di questo supporto infrastrutturale. La realtà è abbastanza diversa. Un singolo drone quale il Global Hawk ha bisogno di diverse centinaia di persone per la manutenzione e per l’interpretazione dell’intelligence che produce. Richiede poi connessioni satellitari per trasmettere i dati che raccoglie: i satelliti non sono solo estremamente costosi, ma hanno anche limiti strutturali, pertanto in alcune aree del mondo, gli Stati Uniti non possono operare più di due Global Hawk simultaneamente per via di insufficienza di banda disponibile.

 

I droni, inoltre, non vincono da soli le guerre: queste richiedono altre infrastrutture, quali basi militari o altri sistemi d’arma, da aerei da combattimento a mezzi di terra. Sviluppare, acquisire e mantenere tutto questo insieme di strumenti bellici è estremamente complesso: non sorprende che solo gli Stati Uniti abbiano la leadership incontestata in questo campo. Ammesso e non concesso che paesi come Russia e Cina riescano lo stesso e in breve tempo a colmare il gap con gli Stati Uniti, restano in ogni caso da gestire le sfide organizzative. Imparare a pilotare droni, decidere a quale livello di comando assegnare la responsabilità per il loro uso, definire come e quanto distribuire l’intelligence che producono all’interno e tra più servizi militari (aeronautica, esercito, eccetera) non è né facile né veloce. Le Forze armate israeliane operano droni almeno dalla Guerra dello Yom Kippur del 1973. Queste hanno però compreso come sfruttare le potenzialità della robotica solo dopo la guerra del 2006 contro Hezbollah. Pratiche, procedure, concetti operativi richiedono tempo, flessibilità organizzativa e spesso lotte burocratiche all’interno delle Forze armate. Se Hezbollah non si fosse rivelato un avversario più ostico di quello che le forze militari israeliane pensavano prima del conflitto, forse l’incentivo a usare in maneira più efficiente le piattaforme senza pilota sarebbe venuto meno.

 

Prevedere il futuro è difficile, ma alla luce di queste considerazioni, è legittimo dubitare che gli Stati Uniti possano finire dalla parte degli sconfitti della rivoluzione robotica in atto in campo militare soprattutto nel momento in cui tutti i maggiori progressi in questo campo vengono portati avanti da aziende presenti nel loro territorio: Google, Uber, Facebook, solo per citare alcuni esempi.

 

Ovviamente ciò non significa che il dominio americano in campo tecnologico-militare sia scontato: il Pentagono deve infatti riuscire a coinvolgere queste aziende nella produzione di armamenti, o almeno a integrare le loro tecnologie in campo militare, e a favorire nuovi sviluppi concettuali e dottrinali all’interno delle sue Forze armate. Un rapporto scritto da Jason Tama, per la Brookings Institution di Washington, “There’s no app for that: Disrupting the military-industrial complex” (2015), discute a fondo questi aspetti. La sfida è aperta e non sarà facile, la nostra previsione è però che paesi come Cina o Russia, per via delle loro caratteristiche interne, quali l’assenza di libertà politica ed economica, incontreranno difficoltà maggiori. Si pensi: chi ha maggiori probabilità di creare nuove tecnologie, un ingegnere nella Silicon Valley o uno che lavora in Cina dove internet non è libero? Se le nostre conclusioni sono corrette, l’èra americana è verosimilmente destinata a durare anche nei decenni a venire.

 

*Andrea Gilli è Post doctoral Fellow al Center for Security Studies di Metropolitan University Prague e Senior Fellow all’Istituto italiano di Studi Strategici Niccolò Machiavelli.

Mauro Gilli è Post doctoral Fellow al Dickey Center for International Understanding di Dartmouth College.

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