Otto parole per battere il jihad senza farsi tramortire dalla voglia di solitudine
Nella gara della solidarietà Parigi e Bruxelles non hanno nemmeno giocato nello stesso campionato. I colori della bandiera francese, jesuisParis, la torre Eiffel: tutto è diventato cordoglio, dopo gli attentati del 13 novembre scorso a Parigi. Con gli attacchi a Bruxelles, nulla è stato uguale. “Gi attacchi a Parigi sono avvenuti mentre la gente era in giro a bere, mangiare, divertirsi, sono sembrati più un attacco diretto alle libertà occidentali e al nostro modo di vivere. L’attentato a un aeroporto non ha la stessa risonanza”, ha detto qualche giorno fa a Politico Europe Matt Smith, fondatore della società di marketing The Viral Factory. “Parigi rappresentava una nuova forma di terrorismo, ragazzi con i mitra, soltanto a Mumbai era accaduta una cosa simile. Questo tipo di terrorismo è più scioccante da guardare in tv”. Nella classifica di chi ormai si è abituato a tutto, l’aeroporto vale dunque meno di una sala concerti, come se viaggiare, partire, baciarsi al controllo dei passaporti fosse meno occidentale di un concerto al venerdì sera.
Ma Parigi è Parigi, la città dell’amore, vuoi mettere con Bruxelles, quel centro fittizio che ci siamo creati per avere qualcuno con cui prendercela? (L’altro centro nel mirino oggi, Washington con i suoi peccati, si è appena ribellato: la rivista Washingtonian ha pubblicato una edizione speciale “In difesa di Washington”, con il sottotitolo: “L’America ama dire cose tremende sulla nostra città. Ecco cosa rispondere”. Forse serve anche per Bruxelles). L’attentato un po’ meno poetico è stato commentato di meno sui social, è risultato meno commovente, meno vicino, è diventato presto il racconto di un paese imploso, il Belgio, di patti scellerati ora saltati. Sapevamo e non abbiamo fatto niente – e il passo successivo è semplice e terribile, un po’ ce la siamo cercata, un po’ è colpa nostra, anzi è tantissimo colpa nostra, perché non reagiamo, non capiamo, non siamo sufficientemente consapevoli della minaccia che abbiamo di fronte. Oppure perché reagiamo troppo, e bombardiamo e mostriamo solo violenza, e poco importa se la supercellula belga va avanti e indietro dalla Siria all’Europa dal 2013, prima che la Francia entrasse in guerra contro lo Stato islamico, prima che l’ondata dei rifugiati soffocasse l’apertura naturale di un continente come l’Europa. E’ colpa dell’occidente, è colpa nostra: ecco l’ultimo effetto della solidarietà mancata a Bruxelles. Ma come ha scritto Niall Ferguson sul Sunday Times, non è disperdendosi, non è accusandosi, non è dividendosi che si combatte e si vince lo Stato islamico. La parola più citata in questi mesi è “network”. La rete del terrore che si è sviluppata in modo tentacolare, tra fratelli, sorelle, amici, fidanzati, madri (spesso inconsapevoli) ha mostrato la sua forza di relazione. Ed è con una forza altrettanto forte, di relazioni, di interconnessioni, di alleanze, scrive Ferguson, che si batte il jihad, dove nasce, in medio oriente, e ancor più dove si sviluppa, nei nostri paesi. Lo storico britannico ricorda il mantra dei generali americani durante il surge in Iraq, dopo il 2006, quando si invertirono le sorti della guerra contro al Qaida: “It takes a network to defeat a network”, diceva il generale McChrystal, ci vuole un network per battere un network, ci vogliono reti di intelligence, di comunicazioni.
E’ l’evoluzione geopolitica delle frasi che le madri anglossasoni ripetono ai loro bambini: “Sharing is caring”, condividere è avere a cuore. Non c’è istinto più forte contro l’isolazionismo che serpeggia in Europa e ancor più in America (tutti chiedevano da tempo a Donald Trump di dire quel che pensa della politica estera, e già rimpiangiamo quella vaghezza) di creare un network d’acciaio. “‘It takes a network to defeat a network’. Queste otto parole, la legge del generale McChrystal, sono la vera lezione di Bruxelles”, conclude Ferguson. Ed è anche la migliore argomentazione contro la Brexit, e contro chi sfugge dal centro, pensando che davvero la solitudine possa essere una protezione, o una salvezza.
I conservatori inglesi