Candele e messaggi di cordoglio a place de la Bourse, Bruxelles, per le vittime di martedì scorso (foto LaPresse)

L'amore non è la risposta

Annalena Benini
La mia città è nel dolore e nel lutto, ha scritto sul Guardian un giovane filosofo di Bruxelles, Bleri Lleshi, che lavora a Molenbeek, ma “i giovani, io, tutti noi, dobbiamo continuare con la nostra vita e insieme dobbiamo rifiutare di rassegnarci alla paura seminata dai terrorisiti – e dai politici, e dai media”.

La mia città è nel dolore e nel lutto, ha scritto sul Guardian un giovane filosofo di Bruxelles, Bleri Lleshi, che lavora a Molenbeek, il quartiere “centrale dello Jihad” dove hanno arrestato Salah Abdelsam (dalle case intorno le persone lanciavano oggetti addosso agli agenti di polizia), ma “i giovani, io, tutti noi, dobbiamo continuare con la nostra vita e insieme dobbiamo rifiutare di rassegnarci alla paura seminata dai terrorisiti – e dai politici, e dai media”. Bleri Lleshi, come molti altri commentatori sui giornali, come i vignettisti che disegnano bandiere in lacrime che si abbracciano, come le persone per strada con i gessetti colorati e i fiori, e cuori con la bandiera belga, mani che si stringono, si consolano con l’amore, che è più forte dell’odio e vincerà. “La solidarietà e l’amore ci daranno il coraggio di superare tutto questo”, scrive Bleri Lleshi, invocando l’accoglienza, la fiducia dei cittadini di Bruxelles, perché “ciò che teme l’Isis è l’unità”.

 



 

E i nostri valori, il nostro stile di vita, come scrivono in tanti, come pensiamo in tanti: non cambieranno il nostro stile di vita, non ci costringeranno a rinchiuderci dentro casa, continueremo a riempire i bar e gli aeroporti, continueremo a prendere la metropolitana, e ci sentiamo già un po’ meglio, un po’ più forti. Perché se qualcuno dice: love, dentro questa formula c’è anche la nostra identità, la nostra convinzione che un concerto al Bataclan sia l’espressione di una libertà che ci rappresenta. “L’amore è la risposta”, però, rischia di farci scivolare verso un mondo hippie colorato e generico, verso una consolazione “peace and love” che serve a far addormentare serenamente i nostri bambini, forse, al pensiero dei fiori di Place de la Republique, a Parigi, che ci proteggono, e alla vista delle candele che abbiamo acceso su ogni davanzale, la sera, ma che non può essere la risposta adulta e complessa, con il carico di responsabilità che porta con sé, a un attacco permanente, a una guerra. L’argine dei nostri valori non basterà. Continuare a uscire di casa (e certo che continueremo a uscire di casa) nemmeno. Le nostre città sono nel dolore e nel lutto e non devono tradire la loro identità di città occidentali e libere, non rinunceremo alla coscienza precisa di quello che siamo, non smetteremo di mangiare pop corn e andare al cinema, prenderemo ancora milioni di aperitivi e piangeremo, sempre un po’ meno stupiti, gli attacchi suicidi, le bombe umane nei nostri aeroporti, l’odio giovane, addestrato ed esaltato che vuole toglierci la tranquillità e la vita. Ma pubblicare la Torre Eiffel a forma di simbolo della pace, suonare “Imagine” di John Lennon nelle chiese e nelle piazze, esaurire il nostro dovere, anche di analisi, con: l’amore è la risposta, non offre nessuna risposta. Non ci ameranno indietro.

 

I gessetti colorati che la pioggia lava via in un secondo, le frasi piene di speranza, le lacrime gonfie di solidarietà, l’esortazione a non fare vincere la paura servono a sentirci dalla parte giusta della storia, ma la protezione del nostro mondo (anche del nostro amore e dei nostri aperitivi) è qualcosa di diverso. E’ una risposta sociale, collettiva, seria, dura: consapevole che non basterà accendere una candela per una notte, o cambiare la foto di Facebook con la bandiera belga, o scrivere: riempiamo le piazze. Consapevole che non basterà restare quelli che siamo, anche. Anzi, bisogna accettare che è cambiato tutto, e quindi siamo cambiati anche noi. Peace and love è una formula, un approccio individuale, generico e a senso unico che non ci fa scudo. Che non ci difenderà mai più.

 

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.