Donald Trump in campagna elettorale a Radford (foto LaPresse)

Palazzinari e dinastie

Visto dalla casa triste di George W. Bush, Trump fa ancora più paura

Nella roccaforte texana allargano le braccia di fronte a una rivoluzione più profonda di una sconfitta elettorale – di Mattia Ferraresi

Dallas. Quando i curatori della biblioteca presidenziale di George W. Bush hanno deciso di lanciare una mostra sulla storia delle campagne elettorali proprio il giorno del Super Tuesday, il “defining moment” del processo che assegna la candidatura, come lo chiamava enfaticamente Bush padre, speravano almeno che Jeb fosse ancora in pista. Invece Jeb è fuori e chi ha una mano sulla nomination è Donald Trump. La corsa dell’ex governatore della Florida è finita malamente prima di arrivare nel Texas del suo fratello maggiore, e l’immagine di Dubya che si scrolla la polvere dagli stivali e scende nell’arena in South Carolina per tentare di raddrizzare una campagna storta è uno dei simboli più amari del fratricidio conservatore. Il museo di Dallas, scrigno dell’eredità di George W., è diventato così il luogo più triste dell’universo repubblicano. Gli inservienti hanno l’ordine preciso di non parlare con i giornalisti, ma di fronte alle domande allargano le braccia, fanno roteare gli occhi all’insù, dicono “cosa vuole che le dica?” e tornano a sistemare magliette vintage del ticket di Reagan e Bush del 1984. Negli scaffali del bookstore compare tutta la pubblicistica dell’universo di famiglia, ma non c’è traccia dei libri di Jeb. Viste da qui, le primarie in cui Trump ha seppellito il rampollo di famiglia con un solo aggettivo, “low-energy”, hanno qualcosa di epocale, perché il candidato che da reality è diventato realtà rappresenta l’opposto logico e politico del mondo dei Bush. E’ molto più di una questione strettamente elettorale.

 

“Indubbiamente, una presidenza di Trump comporterebbe la fine delle politiche dell’establishment dei Bush su commercio, immigrazione e interventi militari”, ha scritto Pat Buchanan, rappresentante della “old right” in eterna lotta con la versione internazionalista e neocon che George W. ha traghettato alla Casa Bianca. Il museo di famiglia è in un edificio dalle tonalità pastello costruito con una pietra calcarea portata dal Texas occidentale, roccaforte bushiana. E’ al centro della Southern Methodist University, dove si è laureata Laura Bush. All’interno si ripercorre tutta la vicenda umana e politica di George W., dall’infanzia ai progetti umanitari in Zambia dopo la fine della presidenza, passando per la guerra globale al terrore.

 

[**Video_box_2**]Quel che colpisce, nel racconto, è la complessità, la tridimensionalità di un personaggio che la storiografia ufficiale ha ritagliato sulla sagoma prestampata del cowboy guerrafondaio, mentre c’era la questione educativa (uno slogan dimenticato della campagna del 2000 recita: “La priorità è l’educazione!”), la lotta alla povertà, la politica fiscale, il conservatorismo compassionevole, la bioetica, i bailout per salvare l’economia dopo il collasso. Anche la parte dedicata all’11 settembre e alla lotta al terrorismo mette i visitatori a contatto con un presidente che si è trovato di fronte a una delle curve più pericolose della storia contemporanea. Il passaggio interattivo al “decision point theater” è uno dei momenti più significativi della visita. Ci si siede a coppie di fronte a uno schermo e parte il racconto di una delle sfide cruciali che Bush si è trovato ad affrontare. In un quarto d’ora gli spettatori devono esaminare gli elementi a disposizione del presidente, le versioni opposte dei consiglieri, il racconto dei media; hanno una serie di informazioni ma di altre non sanno nemmeno di essere all’oscuro (secondo la famosa logica rumsfeldiana) e, insomma, vengono messi nei panni di Bush e infine devono prendere una decisione. Se, ad esempio, la questione è il trattamento di Saddam Hussein la mostra ripercorre tutti gli elementi, dai dubbi dell’intelligence fino alle diciassette risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu mai rispettate dal tiranno iracheno, vista attraverso la lente distorcente delle liti interne: il Congresso contro la Casa Bianca, la Cia contro il Pentagono, gli alleati contro altri alleati, i giornali contro tutti. Un signore che alla fine della simulazione ha votato, non senza dubbi, per tirare giù Saddam si rivolge preoccupato alla moglie: “Pensa se fosse Trump a dover prendere decisioni così complicate”.
Mattia Ferraresi

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