Pedro Sánchez (foto LaPresse)

Perché gli spagnoli prendono sul serio il socialista Sánchez?

Guido De Franceschi
In una recente intervista al País, l’ex premier socialista spagnolo Felipe González ha spiegato da par suo, con una sola frase, l’attuale situazione politica spagnola: a Madrid c’è “un Parlamento all’italiana, però senza italiani per maneggiarlo”.

In una recente intervista al País, l’ex premier socialista spagnolo Felipe González ha spiegato da par suo, con una sola frase, l’attuale situazione politica spagnola: a Madrid c’è “un Parlamento all’italiana, però senza italiani per maneggiarlo”. Infatti, proprio la disabitudine spagnola alle coalizioni e ai bi-, tri-, quadri- e pentapartiti di governo a livello nazionale non offre, né a chi si sta impegnando nelle negoziazioni a Madrid né a chi le osserva, un quadro cartesiano pregresso in cui orientarsi. Intanto, Pedro Sánchez – così ci raccontano le cronache politiche – sta cercando di formare un governo delle sinistre sul modello portoghese.

 

Per il leader del Partito socialista (Psoe) è un’impresa assai difficile. Nessuno, neppure lo stesso Sánchez, lo nasconde. La difficoltà sarebbe quella di trovare un accordo con Podemos, il movimento venato di tentazioni antisistema guidato da Pablo Iglesias, e con la sinistra radicale di Izquierda Unida (Iu). In realtà, visto che l’aritmetica è noiosetta, sfuggono forse alcuni dettagli che trasformano l’ipotetica intesa tra Psoe, Iu e Podemos nella parte meno difficile della faccenda. Infatti, che la si consideri o meno una scelta saggia, questa alleanza a sinistra è possibile. Peccato però che non garantisca i voti sufficienti a varare un governo.

 

Anche qualora chiudesse con successo le trattative con Podemos e Iu, Sánchez dovrà infatti ottenere l’appoggio di altri mattoncini parlamentari trasformati dalle circostanze in ruvide pietre d’angolo. In primo luogo, servono i tre voti dei regionalisti di Coalición Canaria e di Nueva Canarias. E, fino a qui, tutto bene. Ma ancora non basta. Serve il “sì” anche dei sei parlamentari del Partito nazionalista basco (Pnv), un “sì” che non sarebbe gratuito. Ma non basta neppure questo. A Sánchez serve anche l’astensione di Esquerra republicana de Catalunya o di Democràcia i Llibertat (che è il partito dell’ex presidente catalano Artur Mas) o, ancora meglio, di entrambe. Olè, così c’è una maggioranza! Ma è una maggioranza che è praticamente una follia. Sperare invece, per sostituire i nazionalisti, in un’astensione di Ciudadanos, peraltro già esclusa dal suo leader Albert Rivera, è del tutto inutile: se Ciudadanos permettesse l’insediamento di un governo con almeno un componente (Podemos) favorevole alla concessione di un referendum di autodeterminazione in Catalogna, questa scelta coinciderebbe con il suicidio politico di Rivera. Bisogna quindi tornare al precedente scenario: un governo delle sinistre con l’avallo di un’intera galassia nazionalista.

 

Ora, intendiamoci, tutto è possibile anche in un paese tradizionalmente bipartitico come la Spagna: nel 1996, l’allora leader del Partito popolare José María Aznar, che si poneva come lo scintillante alfiere dell’unità del paese, riuscì a formare il suo primo governo grazie al cosiddetto Patto del Majestic, un accordo stretto nell’omonimo hotel sul Passeig de Gràcia di Barcellona, che gli garantì il “sì” in Parlamento dei nazionalisti baschi e catalani. Ma allora “nazionalista”, almeno per quanto riguardava i partiti coinvolti nel Patto del Majestic, faceva rima con “regionalista” e non con “indipendentista”. E, soprattutto, a Barcellona non c’era un governo democraticamente eletto con il preciso mandato di “disconnettere” unilateralmente, nel volgere di pochi mesi, la Catalogna dalla Spagna (“desconnexió d’Espanya” è la locuzione con cui il neonato governo regionale indipendentista di Barcellona, guidato da Carles Puigdemont, indica il percorso verso la secessione). E quindi non si comprende come due partiti (Esquerra Republicana e Democràcia i Llibertat), impegnatissimi nel tessere la disconnessione catalana a Barcellona, possano accordarsi “all’estero”, cioè a Madrid, con un partito (il Psoe) che si dichiara contrarissimo alla frammentazione della Spagna. Né si capisce come Sánchez potrebbe fare concessioni-esca ai partiti catalani senza essere sbranato dai suoi stessi elettori e da una gran parte dei suoi compagni di partito.

 

L’unico collante potrebbe essere la paura di un ritorno al voto che, in misura differente, attanaglia tutti, tranne il premier uscente Mariano Rajoy che è convinto, con qualche ragione, che il suo Partito popolare crescerebbe nelle urne in caso di nuove elezioni, e Podemos che, con qualche ragione in meno e pur arrivando sempre terzo, rimane affezionato all’autoconvinzione del #vinciamonoi.

 

[**Video_box_2**]Ma allora, se un “governo delle sinistre” si configura come un’impresa – numericamente prima che ideologicamente – così acrobatica da apparire quasi impossibile, come mai il tentativo di Sánchez viene preso sul serio dai commentatori politici spagnoli e non soltanto? Per quattro motivi. In primo luogo perché Rajoy, dopo aver rinunciato, almeno per ora, al tentativo di presentarsi in Parlamento per ottenere l’appoggio a un governo guidato da lui, sta, com’è suo sempiterno costume, immobile e muto e lascia il protagonismo alla controparte socialista. In secondo luogo, perché per Sánchez l’ipotesi di guidare un governo, quale che sia, assomiglia a un’ultima chance nella sua ancora brevissima esperienza di leader del Psoe (in caso di fallimento, Sánchez ha già la data di scadenza: i baroni del partito, spinti dalla presidente andalusa Susana Díaz, che ha da tempo malcelate mire madrilene, hanno costretto il debole leader ad anticipare a maggio il congresso socialista, per avere il tempo di disarcionarlo dalla guida del partito qualora si dovesse tornare a votare). In terzo luogo, perché gli spagnoli, che non sono italiani, hanno qualche difficoltà nell’orientarsi nelle arirtmetiche parlamentari. E, da ultimo, perché Sánchez, con tanta confusione sotto il cielo e anche in caso di naufragio del tentativo a sinistra, potrebbe provare comunque a ritagliarsi un ruolo in qualche altra più solida e buonsensista configurazione governativa, da una grande coalizione a una triangolazione Pp-Psoe-Ciudadanos. In ogni caso, mentre Rajoy prosegue il suo pisolino, se gli spagnoli non si italianizzeranno abbastanza celermente da saper maneggiare un Congreso all'italiana e magari inventarsi qualche soluzione più creativa – Governo tecnico? Governo Rivera, appoggiato da Pp e Psoe? – l’approdo più plausibile di questo inedito Parlamento ultraframmentato rimane il ritorno al voto. E allora può essere che, appena sveglio, ben ristorato dal sonno e senza le tumefazioni da negoziazione fallita dei suoi avversari, Rajoy possa portare il suo Partito popolare più vicino a una maggioranza.