Migranti al confine tra Macedonia e Serbia (LaPresse)

Confini e accoglienza, le domande da porsi

Matteo Matzuzzi
La Svezia si prepara a espellere 80 mila richiedenti asilo. “Il sessanta per cento dei richiedenti asilo non ha diritto di ottenere lo status di rifugiato”, dice Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea

La Svezia sta predisponendo l'espulsione di massa dal paese di decine di migliaia di richiedenti asilo: "Credo si tratti in ogni caso di 60 mila persone, ma si potrebbe arrivare anche a 80 mila", ha dichiarato il ministro dell'Interno svedese Andres Ygeman, citato dal quotidiano "Dagen Industri". Il governo ha chiesto alla polizia e alle autorità per l'immigrazione di preparare l'espulsione: fino alla fine del 2015 più di 160 mila persone hanno chiesto l'asilo politico in Svezia. Secondo le stime del governo, il 45 per cento di questi verrà respinto. "Ci troviamo di fronte ad una grande sfida, per questo dobbiamo accrescere le risorse e migliorare la collaborazione tra le autorità: prima di tutto dobbiamo creare le condizioni per il rientro volontario dei richiedenti asilo ma, se non ce la facciamo, dovremo forzare questo rimpatrio", ha aggiunto Ygeman.

 


 

Roma. La scorsa estate, con le orde di profughi che bussavano alle frontiere esterne dell’Unione europea, Berlino fece intendere che la crisi dovuta all’esodo umano dalla Siria si sarebbe risolta semplicemente aprendo le porte, senza quote e filtri. “Accoglierli è un imperativo umanitario”, diceva ancora un mese e mezzo fa Angela Merkel parlando al Congresso della Cdu, tutt’altro che monolitica (al pari dello storico alleato bavarese, la Csu) nel sostenere la linea umanitarista propugnata dalla cancelliera. Cercava, Merkel, di rendere più convincente la sua strategia, d’ammantarla di patriottismo citando padri fondatori e vati imperituri quali Konrad Adenauer, Ludwig Erhard e Helmut Kohl. A Bruxelles si guardavano le masse di migranti accampate davanti al muro costruito da Viktor Orbán in Ungheria e le lunghe teorie di treni affollati fermi tra la Macedonia e Belgrado. Senza intervenire, rimandando ogni discussione a vertici intergovernativi di fine estate e garantendo la solidarietà di routine ai paesi frontalieri. Quasi che il continente fosse ancora immerso in quella che Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera di ieri, ha definito “la nostra seconda Belle Epoque” degli anni Novanta, caratterizzata da dinamismo e crescita, pace dentro e fuori i confini, nessuna emergenza migratoria alle sue periferie. Qualche decina di migliaia di migranti dopo entrati nello spazio comunitario, è la stessa Commissione europea ad ammettere che qualche errore di calcolo è stato fatto e che la situazione appare ormai fuori controllo: “Circa il sessanta per cento dei richiedenti asilo non ha alcun diritto di ottenere lo status di rifugiato”, ha detto Frans Timmermans, primo vicepresidente a Palazzo Berlaymont, confermando implicitamente come la maggioranza sia costituita da profughi “per motivi economici” e non da individui in fuga da guerre e persecuzioni etnico-religiose. Un’idea su dove sistemare i non aventi diritto – a conferma di quanto il caso sia ormai di complicata gestione anche per la burocrazia dell’Ue – l’ha data il ministro dell’Interno belga, Jan Jambon, nel corso del delicato vertice di lunedì scorso ad Amsterdam per valutare il destino di Schengen, quando ha proposto di allestire un “campo profughi” ad Atene “capace di ospitare trecento-quattrocentomila persone”. Idea subito rispedita al mittente dal governo ellenico, secondo cui è “oltraggioso pensare che la Grecia possa diventare un carcere o una terra d’esilio”.

 

A un quadro già complesso, con il dibattito sulla necessità di attivare gli hot-spot ai valichi di frontiera italo-austriaci (Tarvisio o Brennero?) e l’attesa per il pranzo di venerdì, a Berlino, tra Merkel e Matteo Renzi dove si prevede di parlare di come rimpatriare i non aventi diritto all’asilo (cioè sei richiedenti su dieci), fermando al contempo gli altri in Turchia (che domanda ben più dei tre miliardi promessi da Bruxelles per trattenere i profughi in arrivo da Damasco) si aggiunge quanto ha riportato ieri il Telegraph, citando fonti d’intelligence britannica: “Lo Stato islamico sta sfruttando abilmente la crisi dei migranti per trasferire cellule terroristiche dalla Siria nei principali paesi europei, tra cui il Regno Unito”.
Lo schema è semplice: “I jihadisti vanno a Raqqa per incontrare i comandanti dell’Isis, e lì ricevono una formazione adeguata e nuovi passaporti. Quindi tornano in Europa, fingendosi migranti con le loro nuove identità e rendendo di fatto impossibile per i funzionari della sicurezza rilevare la presenza di potenziali terroristi tra quanti sono in fuga dalle persecuzioni”. I numeri, scrive il quotidiano di Londra, sono ben chiari ai servizi segreti locali: almeno ottocento si sono recati in Siria per arruolarsi con le milizie del califfo Abu Bakr al Baghdadi, e la metà di essi ha già fatto ritorno in patria. Molti di questi, aggiunge il Telegraph, sono ora controllati dalle forze dell’ordine, ma la preoccupazione è per il numero di jihadisti (inglesi e stranieri) presenti sul territorio britannico sotto falso nome. A questi vanno aggiunti quanti sono pronti a “mischiarsi con le migliaia di viaggiatori” che abitualmente entrano in Gran Bretagna. Non a caso, lunedì scorso il ministro dell’Interno francese, Bernard Cazeneuve, parlava di una “industria” organizzata dallo Stato islamico dedita alla falsificazione di passaporti rubati in Iraq, Siria e Libia.

 

[**Video_box_2**]Parole confermate dall’intelligence americana, che da tempo ha segnalato come il Califfato sia entrato in possesso dei macchinari utili a stampare i documenti validi per l’espatrio. Se è vero che gli attentatori di Parigi erano cittadini europei con base tra Saint-Denis e Molenbeek, i movimenti di Salah Abdeslam hanno confermato quanto porosi siano i confini dell’Unione. Qualche giorno fa, un rapporto dell’Europol confermava che l’Isis – e non più solo qualche imam fondamentalista attivo tra le montagne della Bosnia – ha allestito campi di addestramento nei Balcani al fine di “preparare combattenti per compiere attacchi nello stile delle forze speciali” in Europa. Ecco perché Keith Vaz, presidente della commissione Affari interni della Camera dei Comuni ha parlato di questione “vitale per la nostra sicurezza nazionale” quando ha chiesto che il Regno Unito e tutto il continente europeo provvedano a mettere in sicurezza le frontiere esterne, sì da prevenire future atrocità come gli attacchi di Parigi dello scorso anno”.

 

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.