Un convoglio dello Stato islamico in Libia

Obiettivo Libia

Redazione
Esportare la democrazia, si diceva una volta. Oggi bisognerebbe accontentarsi di un obiettivo più modesto e immediato: bloccare l’importazione del Califfato.

Esportare la democrazia, si diceva una volta. Oggi bisognerebbe accontentarsi di un obiettivo più modesto e immediato: bloccare l’importazione del Califfato. Sta succedendo  in questi mesi in Libia, un paese paralizzato da una crisi politica senza fine, che sta diventando il terzo pilastro dello Stato islamico, dopo Iraq e Siria. Gli americani lo hanno capito e venerdì hanno bombardato, per uccidere, un leader estremista iracheno che l’anno scorso è arrivato in Libia con l’incarico preciso – assegnatogli da Abu Bakr al Baghdadi, antico compagno di prigione – di mettere in piedi lo Stato islamico di Libia. Lui è morto (forse, alcune fonti locali smentiscono) ma il disegno è stato realizzato.

 

Secondo fonti  del Foglio, il pezzo libico di Califfato sta approfittando della relativa calma di questi mesi per preparare una espansione militare e strategica verso i pozzi del petrolio, a sud di Sirte, e verso i terminal del petrolio, a est di Sirte. Insomma vuole aprire un proprio business petrolifero e vuole ostacolare quello altrui. Sta anche occupando lo spazio lasciato libero e ingovernato dai due poteri che si dividono il paese, Tripoli e Tobruk, al centro del Golfo libico: anche dal punto di vista materiale, è ormai difficile attraversare il paese dalla Tunisia all’Egitto senza incappare in un checkpoint dello Stato islamico, a meno che non si scelga di passare dal sud desertico e poco raccomandabile. In breve: un numero di estremisti che non supera le cinquemila unità taglia a metà una nazione di sei milioni di persone, proprio come otto assalitori suicidi hanno trasformato Parigi in una zona di guerra per una notte. 

 

E’ già successo in Iraq e in Siria: gli uomini di al Baghdadi avanzano senza disporre di sistemi di difesa aerea e tecnologia bellica sofisticata, oppure di diplomazia. Hanno soltanto l’incrollabile certezza che gli altri, i libici ma anche tutti noi, sono troppo insicuri e fiacchi per fare qualcosa. A differenza della Siria e dell’Iraq, però, questa volta tutti dovrebbero avere imparato la lezione: ogni ora persa da noi è un’ora guadagnata da loro. I francesi, ormai assediati dal rischio nelle loro stesse città, sembra siano arrivati anche loro a questa conclusione e domenica aerei da guerra mandati da Parigi sono stati avvistati sopra Sirte, capitale dello Stato islamico libico, a osservare. Forse passeranno ai fatti, e non sarebbe male fare qualcosa in più, contro Isis, rispetto al semplice bombardare i dieci siti a Raqqa.

 

[**Video_box_2**]Varrebbe quindi la pena di distogliere lo sguardo dai dibattiti post strage che seguono sempre questi fatti, e che tirano in ballo la dinastie abbaside oppure il proletariato metropolitano e puntare – lo sguardo, ma non solo – sulla realtà davanti ai nostri occhi al di là del mare. Il Califfato libico è già nato, minaccia Roma dalla spiaggia che ci sta dirimpetto, ci sta lanciando gli stessi segnali di battaglia che ha lanciato per un anno contro i francesi. Talvolta si sente dire che “è meglio non trasformare la Siria in una nuova Libia”. Sarebbe meglio rovesciare l’ammonimento: meglio che la Libia non si trasformi in una nuova Siria, da dove, vedi Raqqa, partono i raid islamisti che seminano morte e panico tra i civili. Sono loro a dirci quello che faranno, come serial killer narcisisti che non riescono a non vantarsi delle uccisioni, come se implorassero di essere fermati. I siti dello Stato islamico chiamano l’operazione a Parigi con un termine arabo, ghazwa, che secoli fa abbiamo italianizzato in “razzia”. Vedete? Le incursioni da sud non sono nulla di nuovo, ma almeno a quei tempi si vegliava all’erta. Oggi, incredibilmente, siamo stati ad aspettare che la soluzione arrivasse dal mediatore esangue Bernardino León. A Sirte ridono.

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