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Diario di guerra al centro di Parigi: funerali, librerie, cene, carnaio

Giuliano Ferrara
Che fare? Difenderci qui? Impossibile. Andare lì e cambiare la mappa del loro potere, intimidirli, convertirli a viva forza al rispetto delle donne, dei cristiani, degli ebrei e degli ezidi e dei curdi, che nel frattempo una piccola vittoria ce l’hanno assicurata? - Reportage dalla capitale francese di Giuliano Ferrara

Parigi. Venerdì pomeriggio 13 novembre, ore 15 e 30.     
Bataclan è un’operetta di Jacques Offenbach, a lieto fine, una chinoiserie dell’Ottocento, e dall’operetta prende il nome il teatro dell’eccidio in mezzo alla febbre del venerdì sera. Il mio lieto fine, se riuscirò a partire per tornare in Italia domenica (ieri per chi legge il Foglio rosa del lunedì), comincia a un funerale. I funerali di André Glucksmann, nel Crematorium del Père Lachaise a Parigi, furono una piccola ma significativa lezione: storia, ideologia, temperamento, caratteri e una nazione civilizzatrice e insieme barbarica erano riuniti in assetto superlaico davanti al catafalco del filosofo combattente, reincarnazione tra le generazioni dell’eterno e fatale modello francese dell’intellettuale pubblico. L’ebreo Glucks, così lo chiamavano gli amici, fu maoista, poi anticomunista e ferocemente antisovietico (dopo la lettura fatale dei libri di Alexander Soljenitsin). In seguito fu droitdelhommiste, sostenitore dell’umanitarismo a ogni latitudine (il suo capolavoro fu la stretta di mano tra Sartre e Aron per i boat people, i rifugiati in mare dell’unificazione armata del tonchino, nel 1979), protettore dei ceceni quando furono aggrediti dal regime postsovietico, sostenitore dell’intervento occidentale per la liberazione di Sarajevo dall’assedio serbo-bosniaco, tribuno per il martirio degli ugandesi, dottrinario della guerra giusta contro Saddam Hussein dopo l’eccidio delle Twin Towers, e testimone incollerito per tutte le vittime del mondo.

 

Oltre alle donne cecene velate, oltre a straccioni di tutto il mondo, oltre a un autorevole ucraino con sciapka regolamentare, oltre ai veterani di mille battaglie, soprattutto borghesi del tout Paris, c’era Nicolas Sarkozy seduto in prima fila. Glucks lo aveva appoggiato per poi ritrarsi afflitto dopo i suoi attacchi al 1968 e agli zingari. Daniel Cohn-Bendit ha sculacciato l’ex presidente nella sua orazione per aver deluso Glucksmann: aveva confidato in lui per il sostegno alla sua “missione”, e Sarko si era fatto gli affari suoi di Realpolitiker. Dany è fermo alla sua fuga rocambolesca tra le barricate del maggio 1968, ai suoi sberleffi contro il potere, alla sua storia personale di scongelatore della società catafratta della destra europea all’epoca in cui con disprezzo fu chiamato dall’establishment gollista “juif allemand”, e in risposta si levò il grido solidale “nous sommes tous des juifs allemand”, prototipo di tutti i veri e finti #jesuischarlie. Ma Cohn-Bendit ha uno strano e sincero modo, proprio a tutta quella generazione, di cui è un caso fortunato per ambivalente felicità di vita (basti pensare al suicidio di Alex Langer), di rivendicare il suo diritto all’errore e a battersi ancora nel teatro inesauribile delle idee e della prassi di movimento, ispirato al multiculturalismo. Che tra qualche ora farà capolino con fuochi d’artificio e sangue nel quartiere da lui amato, nel triangolo tra boulevard Voltaire, République e Oberkampf. La sua orazione funebre era un classico intervento in assemblea, qualcosa che i più giovani non conoscono ma che ha segnato le vite dei loro padri e delle loro madri.

 

Il figlio di Glucksmann, Raphael, dopo l’umanitario Kouchner, dopo Bernard-Henri Lévy, dopo Pascal Bruckner, dopo altre testimonianze commoventi, ha detto cose gentili e sorridenti malgrado la circostanza. E’ alto, bello, charmeur, e ha sposato l’ex ministro dell’Interno della Georgia, ora viceministro dell’Interno dell’Ucraina, una splendida ragazza, che ha parlato anche lei e molto bene, di cui André aveva detto: pare che ci sia questa donna bellissima che licenzia i poliziotti corrotti, e così fu anticipato il tema del legame coniugale del suo figlio unico.

 

Ma il massimo della gioia funebre fu l’amico del cuore di André, Romain Goupil. Liceale sessantottardo, mio coetaneo, trotzkista però, e cineasta con Chabrol e Godard, poi in proprio, e attore e intellos impegnatissimo. Ne ha fatte di ogni, ma al fianco di Glucksmann si è riscattato per la forte partecipazione alla guerra irachena di Bush, Cheney e Rumsfeld: non si è mai scusato. E’ un uomo pieno di spirito, un buttafuori che vorrei anche al mio funerale, un volto magico su una corporatura massiccia da servizio d’ordine del movimento. L’ambiente era orrendo, come sempre quando si officia il lutto in quelle parodie del tempio cristiano che sono i tempietti massonici superlaici: meglio niente, meglio la cenere al vento o la terra senza chiacchiere in un brutto posto. Ma alla fine del funerale, in cui una generazione mezza matta e mezza libera prometteva di non dimenticarsi di sé, le vetrate colorate bruttissime hanno cominciato a prendere la luce radente del tramonto al nord, e perfino quel postaccio ha avuto pietà di sé con l’aiuto del sole morente.

 

Ore 17.
Volevo andare al Collège de France a sentire Marc Fumaroli che parlava di Roland Barthes a cent’anni dalla nascita. Già, Barthes: il semiologo mite e gentile che se non fosse morto trentacinque anni fa proprio davanti al Collège de France, investito da un camioncino, avrebbe scritto un saggio glaciale su questo venerdì 13, e avrebbe citato l’avversione al numero tredici di Schoenberg, che intitolò la sua opera “Moses und Aaron” togliendogli una “a” perché sennò erano tredici lettere. Ma s’era fatto tardi, ero anche stanco per una mattinata di librerie e passeggiate molto cool incontrando italiani anche giovani e simpatici ai quali devo spiegare che sono quasi cinquant’anni che passeggio da queste parti e non mi sono ancora stancato di questo luogo di tabaccai, panettieri e librerie. E’ uscita una nuova biografia opera prima su Montaigne, in cui si dice che il gran saggio e scettico, cultore dell’equilibrio, in realtà era più collerico di me. E’ uscito un ponderoso trattato sull’antisemitismo di Wagner, ma non quello degli scritti, che è banale, quello delle partiture, delle note, degli accordi, degli armonici, dell’ethos musicale. Che è più strano. Consulterò Isotta. Presa la metropolitana, sono passato sotto i luoghi del delitto della sera, tutti, escluso solo lo stade de France, poi ho riparato a casa in attesa della belle soirée. Avevo invitato lo scrittore e maestro Gabriel Matzneff, che mi onora eccetera, e la mia amica Valensise, che chiamo amabilmente Marquise de Valensise, a cena. Ma non dal solito Lipp, o nel bistrot du coin. All’Ambassade d’Auvergne, piuttosto, dove si mangia assai bene, vicino alle Halles e al Beaubourg. Attrazione per il delitto?

 

Ore 19 e 50.
Il bus 47, morto che parla, è pieno zeppo, un giovanotto gentile mi fa sedere e continua a leggere il suo bouquin in piedi. Allo Chatelet un altoparlante annuncia che per ragioni di polizia il bus devia e praticamente ritorna indietro. Scendo e mi avvio a piedi. Il ristò dista un kilometro circa. E poi, ma secondo le cronache a partire dalle 21, il botto grosso, la sequenza delle fusillades. Eppure la mobilitazione sinistra di polizia, la deviazione dei bus, il blocco di Boulevard Sébastopol, cominciano un’ora prima; forse sapevano qualcosa, i servizi avevano intuito il fattaccio imminente, ma non sono riusciti nell’impossibile dissuasione dei jihadisti kamikaze, quelli che cercano il paradiso con la morte altrui e la propria. Così succede quello che avete già letto nella cronaca di sabato scritta a notte alta venerdì. Niente di eccezionale, siamo nell’ordinario di una guerra dispiegata, che non accettiamo ma c’è. Un eccidio islamico al grido di Allahu akbar nel centro di Parigi, a poche centinaia di metri da dove cenavo, e una nottata di chiacchiere e distintivi, unità, anzi union sacrée, ma niente islam, la parola non si porta, la verità sarà magari nominata Daesh, sigla misteriosa e non qualificata, ma che sia in corso una guerra guerreggiata a sfondo religioso e di civiltà, con le frappes dei caccia francesi in Siria sul territorio dello Stato islamico, è un open secret, tutti lo sanno nessuno lo dice.

 

Ore 22 e 30.
Questa è la cronaca originaria, edita.
“Parigi. Ero sul bus 47. Lo hanno fermato allo Chatelet, all’inizio di Boulevard Sébastopol, direzione saint Denis, stade de France, Bataclan eccetera. Luci rotanti delle auto di polizia, centinaia di uomini armati a presidio del territorio, ma tutto in uno strano silenzio d’incomprensione e di disinformazione. Io ero diretto all’Ambassade d’Auvergne, un ristorante magnifico in rue du Grenier Saint-Lazare, con il conte Matzneff e Marina Valensise. Sceso, ho proseguito a piedi. Chiedevo informazioni, il boulevard era completamente vuoto all’ora di punta, a parte i militari e i passanti ignari, erano le 7 e cinquanta di sera. Erano cominciati gli attacchi ma nessuno lo sapeva. Raggiungo il ristorante e ordino e chiacchiero (saucisse e aligot, una delizia, vino del Roussillon, molto migliorato). Alla fine non ci fanno uscire: porte sprangate. Poi le aprono e ci ridicono la versione che correva ma senza particolari: fusillades. A noi sembra un incubo, di quelli insopportabili anche dopo un buon rosso e una cena da sballo. Ecco. A quel punto stavano evacuando Hollande dallo stadio, chiudevano la folla di Francia-Germania (2 a 0) nello stadio, al Bataclan si procedeva con la presa d’ostaggi, altri ristoranti dell’area erano stati presi di mira: i morti si contano a decine. Da web e tv apprendo la tragedia una volta tornato a casa nella rive gauche, risparmiata dalla guerriglia. Notre-Dame de Paris era illuminata e bella, la Senna scorreva, le esplosioni dello stadio sono state l’unica informazione di stato via televisione. Le catene inglesi di Sky e i24, trasmettevano tutto, ma fino a tardi tg1 tg2 e tg3 muti. Un senso di controllo forte della situazione, con presidenti e ministri rinchiusi a place Beauvau, sede dell’Interno. Ma una volta a casa ho gettato l’occhio su Libération, il quotidiano della gauche del giorno stesso o di quello prima: chiedevano con severità al ministro dell’Interno se non esagerava con le sue preoccupazioni securitarie. Ho pensato che a questo punto forse la Le Pen può veramente vincere le elezioni, e Houellebecq il Nobel per la letteratura. Non credo che Sarkozy faccia barrage, l’avevo visto nel pomeriggio ai funerali di Glucksmann, dove Cohn-Bendit lo aveva preso per i fondelli, sono cose che la gente normale non capisce più. In strada un ordinario panico disinformato, l’unico citoyen compos sui che ho incontrato mi aveva dato le prime notizie. Il primo che scrive Parigi brucia lo prendo a calci. Ma certo la notte scottava prima della ribattuta del Foglio. E anche dopo”.

 

Notte tra venerdì 13 e sabato 14.
A nanna alle quattro. Nel frattempo. Hollande fa il primo di tre messaggi. E’ scosso, ci rappresenta tutti anche nelle nostre paure, certo, ma la sua paura dovrebbe esprimersi in un discorso incoraggiante, di verità, combattivo, diretto alla ville lumière spenta dalla guerra santa in risposta alle timide frappes francesi: la formula “spietati con i barbari di Daesh” fa ridere macabro. Lo stato di eccezione e la chiusura delle frontiere si capiscono meglio. Abominevoli, barbari, ma che significa? Sono combattenti jihadisti islamici, lo si sa par cœur ormai. Hanno dietro di sé un’ideologia, un credo, una mistica, un libro sacro, uno stato califfale, radici complesse nell’islam europeo e francese, la paura dell’occidente, e un sovrano disprezzo per la morte, propria e degli altri. Non lo si può dire per correttezza etnico-politica? Allora abbiamo perso.

 

La Cnn: gunmen. La Bbc e Sky: attackers. Le immagini girano, il carnaio si profila con i numeri agghiaccianti che sapete. Si sentono le sirene in strada e gli spari nello schermo: sordi, a pompa, raffiche discrete, quasi silenziate, non ci fossero le grida dei sopravvissuti, di quelli in fuga, le testimonianze piangenti intorno al Bataclan e ai ristoranti asiatici, ai bar e alle strade insanguinate. Ma chi sono questi fantasmi di una violenza che non si conosce, che non ha radici politiche chiare, scollegata dall’11 settembre, dallo scontro di civiltà, dalla lotta intorno ai criteri di vita liberi ed eguali che l’islam rifiuta per motivi di fondamentalismo religioso? Sono chiusi nella sala da concerto, dove uno spettacolo heavy metal sostituisce le antiche chinoiseries dell’orientalismo musicale. Mi verso litri di caffè, sono ipnotizzato, le finestre sulla cour interna della mia mansarda sono accese, la notizia è che il nemico è ancora in giro, il pericolo è per ogni dove, domani non si va a scuola, non c’è università che tenga, chiudono i cinema, i musei, i teatri, i centri commerciali salvo il Louvre e qualche Fnac ben protetta, tutto il resto di ciò che è pubblico è sospeso, il mio Donizetti del sabato sera finale salta, Nemorino e il dottor Dulcamara non vanno in scena per solidarietà con Fé-an-nich-ton, Ké-ki-ka-ko, Ko-ko-ri-ko, Fé-ni-han, i protagonisti della deliziosa satira politica di Offenbach e Halévy, che ce l’aveva con la democrazia, composta nel secondo impero. Aspetto la comparsa della parola islam. Invano. Tv americana, inglese, francese: niente. Si cita solo pudicamente un testimone dell’irruzione nel teatro di Oberkampf: gridavano Allahu akbar, chissà perché. Vado a dormire quando l’irruzione delle teste di cuoio ha scoperto ottanta, cento morti, dopo che i feriti sono stati caricati e portati alla Salpêtrière o all’ospedale saint’Antoine. Un’ora, due ore dopo. La campagna elettorale per le regionali è sospesa.

 

Sabato 14 mattina, ore 9 e 30.
Il mercato del sabato è annullato, annulé mi dice la panettiera con il fare sbrigativo e gentile dei bottegai di questo meraviglioso quartiere intorno a place Maubert. Fotografo gli stand imbastiti la notte e vuoti, la mando a Cerasa che ha fatto le ore piccole per la ribattuta. Trovo il salmone e l’eau Perrier, ma non la parola islam. Strano. Hollande dice che è un atto di guerra, lo rispiegherà ancora più duramente il premier Valls, ma non spiegano chi è il nemico. Obama è stato svelto sui valori e la solidarietà, ma anche lui spiega poco. Vorrei capire perché le truppe occidentali, la tecnologia occidentale, i denari benedetti occidentali, i ragazzi in divisa, non sono a Damasco, a Raqqa, ad Aleppo, a Mosul, a Palmira, perché solo i curdi combattono, con l’aiuto degli ezidi, perché abbiamo passato l’estate a elogiare la fuga di robusti giovanotti dalla Siria e dallo Stato islamico, e accettato il paradigma della rassegnazione e dell’immigrazione dei profughi e dell’asilo politico, che gli “islamofobi”, razza di uomini e donne le cui ragioni vanno valutate anche senza abbracciarle, chiamano soft jihad. Ma nessuno me lo spiega. Merkel dice che è avvenuto “l’inconcepibile”: in che senso, Frau Merkel? Era previsto, altro che inconcepibile. Era già accaduto, altro che inconcepibile. Accadrà ancora, altro che inconcepibile. Vanno avanti le procedure per il boicottaggio dei prodotti degli insediamenti israeliani in Cisgiordania: mi vergogno per loro, per gli europei, e un poco per me stesso. Un deputato della destra dice: sapevamo in anticipo, da sempre, che certi tipi erano fatti apposta per sortite come quella di ieri sera, i renseignement, i servizi, hanno le liste dei sospetti d’avance, in anticipo, sono 4.000 persone, mettiamole in una immensa Guantanamo, non ci possiamo permettere che stiano in libertà. Più tardi Valls aprirà anche a simili soluzioni, ma specificando che sono diecimila nella lista nera. Un altro, di sinistra, dice: lo scopo dei terroristi, dei gunmen, è di stimolare una risposta repressiva e bellica in modo da reclutare fra i cinque milioni di musulmani francesi. Questa l’ho già sentita ai tempi delle bierre, anni Settanta: vogliono la repressione, diamogli chiacchiere unità nazionale e caramelle. Tardò la campagna per la delazione, e nel frattempo uccisero il sindacalista Guido Rossa e Aldo Moro e decine di altri povericristi. Un ambasciatore inglese a Roma dovette più avanti rinunciare ad avermi al suo cocktail, grave rinuncia per lui e per me, perché dichiarò che Bush reclutava per Bin Laden, lo stolto, e lo mandai a quel paese. Avanti così, facciamoci ancora del male. Sì, è colpa di Rumsfeld e di Cheney, e magari delle timide frappes di Hollande su Raqqa.



Si passeggia guardinghi e afflitti, tengo il mio diario, all’ora di colazione, ossessionato dal flusso: notizie, cose che si vedono, video che si ascoltano, il tasto mute premuto per poter ricordare e scrivere inutilmente la mattinata del day after e i suoi pensierini. Quando avranno qualcosa di più dei kalash, come dicono abbreviando i parigini, faranno più a fondo il loro dovere. Sarko solidarizza con Hollande, ma fino a un certo punto. Annunciata parata parlamentare a Versailles, utile protocollarmente, ma fino a un certo punto. Sono perduto senza Donizetti, ma alla fine decido di uscire, pazienza, ho un invito a cena generoso per un compleanno, ora esco e ricomincio a vedere, se posso. Esco con il passaporto. La mia Dea dei viaggi, che si chiama Arianna, si è offerta di vedere se da Orly domani si parte, se si può cambiare un Easyjet. Mi chiama Ostellino, anche lui da queste parti: stattene a casa e di questi tempi non prendere l’aereo. Paterno e cortese, come sempre: ma anche i treni nel loro ciuf-ciuf talvolta si mostrano incazzati e rissaioli, e io non ho le spalle di un marine americano in trasferta. Riesco. Vedremo.

 

Il tempo è in fondo dolce per un novembre, ma la luce è livida e il sole che non ce la fa proprio a illuminare il pomeriggio. Nel bus 86 ci si guarda e si tace. Alla Bastille fotografo il ricordo di Donizetti. Poi per il viale Beaumarchais, fino al Bataclan. Non si passa. Si resta a duecento metri. Polizia. Giornalisti, un’orchestra in esterni. Gente del quartiere più “in” e movidesco della città. Sono multiculturalisti per vocazione, sono giovani, sono elettori di sinistra. Moto, bici, pedoni, belle ragazze, neri, nere, arabi. Locali e localini. Stupefazione, smarrimento, attesa di Le Monde, che esce al pomeriggio. Il direttore dà la linea: l’islamismo è una malattia regressiva dell’islam. Finalmente arriva la parola, ma attraverso un eufemismo, una circonlocuzione autocontraddittoria. Unità: ecco, durerà come quella per Charlie Hebdo e la macellazione del negozio ebraico kosher, poco. Lo dico a una tizia con la gonna lunga seduto al caffè. Mi guarda come un mostro. Sono un mostro forse, ma ora vorrei risiedere a Ginevra, anzi a Ferney, nel castello di Voltaire, che venne a morire qui ma preferì vivere lì in cerca della tolleranza.



[**Video_box_2**]Un elegante fascicolo dell’Obs, settimanale della gauche, con copertina sulle guerre di religione, in bella vista in edicola. Lo compro. Equilibrio: tot scimitarre tot croci e crociati. L’esperto è sempre sopra le parti, deve vendere l’occidente all’occidente, e lo si fa spacciandogli la diversità senza identità, altra soluzione autocontraddittoria. Chiamo Lanfranco Pace, dopo varie foto e chiacchiere con colleghi, sulla via del ritorno. Una argottina mi dice che il bus non passerà perché c’è stata la boche, che non è il dispregiativo per tedesco, in questo caso, ma un sostituto della boucherie, il macello, il carnaio. Allungo il passo e dico a Lanfranco, che sta a Arezzo: ricordi quando mi dicevi di andarmene dal quinto arrondissement per rifugiarmi nella sensualità di Oberkampf, boulevard Voltaire eccetera, quando mi volevi tutte le sere al Balaclan? Per fortuna non ti ho dato retta. Lui ride e ci domandiamo che fare, come due vecchietti sessantottini. E torno ai funerali di Glucksmann e alle mancate scuse di Goupil. Che fare? Difenderci qui? Impossibile. Andare lì e cambiare la mappa del loro potere, intimidirli, convertirli a viva forza al rispetto delle donne, dei cristiani, degli ebrei e degli ezidi e dei curdi, che nel frattempo una piccola vittoria ce l’hanno assicurata? Convincere Papa Francesco che la misericordia è il volto santo della giustizia, e di entrambe deve occuparsi la chiesa del nostro Dio? Ma i curdi non bastano. Forse gli islamici non aspettano altro. Non possiamo comunque fare altro. La prossima frappe di chi ama la morte, la identifica con una precipitazione nel paradiso, nella salvezza, sarà ancora peggio. E’ chiaro come il sole che non c’è. Torno a casa, mi rimetto a scrivere il diario. Dopo cena apprendo, tra canti di Marsigliese e candeline e fiori molto patetici, che Hollande riceverà domenica sia Sarko sia Marine Le Pen, che il mondo prega per Parigi, anche un po’ per me dunque. Che hanno preso padre e fratello di un francese che si è fatto esplodere tra i ragazzi del Bataclan. Sento la Marseillaise suonata a Livorno, alla partita col Vicenza: quasi mi commuovo anch’io. In attesa di nuove immagini e di notizie. Parla Kerry. E’ convinto che c’entri lo Stato islamico. Ma va? E’ notte. Bisogna dormire, domani si cerca di partire. Destinazione Roma, seguo il percorso annunciato del Daesh, il fantasma dell’illibertà.


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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.