Helle Thorning-Schmidt (foto LaPresse)

Al voto in Danimarca si prevede parità, ma l'austerità ha già vinto

Redazione
Helle Thorning-Schmidt, premier socialdemocratico dal 2011 alla guida della Danimarca, oggi cerca il secondo mandato alle elezioni generali. E’ l’ultima portabandiera del modello socialdemocratico scandinavo, in declino in tutta la regione.

Roma. Tutti la conoscono come la bionda premier danese che fece infuriare la first lady Michelle Obama il giorno dei funerali di Nelson Mandela, quando un selfie tra lei, Barack Obama e il premier inglese David Cameron costrinse il presidente americano a un cambio di posto sugli spalti dello stadio dove si teneva la cerimonia (Michelle in mezzo, a tenere Obama lontano dalla bionda). E in effetti Helle Thorning-Schmidt, premier socialdemocratico dal 2011 alla guida della Danimarca, che oggi cerca il secondo mandato alle elezioni generali, è chiamata dai critici Gucci Helle, per i suoi completi perfetti e costosi. Ma per i suoi conterranei, Thorning-Schmidt non è semplicemente quella del selfie. E’ l’ultima portabandiera del modello socialdemocratico scandinavo, in declino in tutta la regione. Thorning-Schmidt ha capito che per preservare il modello è necessario aggiornarlo all’èra della globalizzazione e dell’austerità. I primi due anni del suo mandato sono stati duri, la Danimarca è stato il paese della regione più colpito dalla crisi finanziaria, e Thorning-Schmidt ha guidato un governo di coalizione con i conservatori del Partito liberale, che presto però hanno tolto il loro appoggio all’esecutivo. La premier ha dovuto tagliare la spesa pubblica e i servizi sociali, ha spostato il suo partito verso il centro e ha infranto molte promesse di giustizia sociale fatte in campagna elettorale. Il governo ha fatto sette rimpasti in quattro anni, e fino a due anni fa il consenso della premier era così basso che un secondo mandato sembrava impossibile.

 

Ma le riforme hanno consentito alla Danimarca di superare la crisi, il paese crescerà dell’1,7 per cento quest’anno e del 2 per cento il prossimo. Thorning-Schmidt ha approfittato del clima economico favorevole per infrangere di nuovo il tabù socialdemocratico scandinavo, e ha abbassato le tasse per le imprese e per la classe media. Così i consensi del governo sono tornati a crescere, e Thorning-Schmidt, con un messaggio elettorale che non dispiacerebbe più di tanto a un partito di centrodestra europeo (“abbiamo creato un clima pro business in cui abbiamo abbassato le tasse, e al tempo stesso mantenuto la giustizia sociale”, ha detto la settimana scorsa al Financial Times), ha recuperato terreno sull’opposizione conservatrice del Partito liberale. Oggi i due partiti sono in parità statistica intorno al 25 per cento, e se Thorning-Schmidt vincesse, scrive ancora il quotidiano della City, la sua sarebbe la più grande rimonta politica negli ultimi 60 anni in Danimarca.

 

[**Video_box_2**]Il candidato conservatore, l’ex premier Lars Løkke Rasmussen, che è dato da molti come il vincitore, punta sulle promesse infrante di Thorning-Schmidt, che sono state tante, e sulle sue decisioni controverse, come la vendita a Goldman Sachs di una quota della più importante società energetica statale, Dong Energy (ancora una volta mossa molto poco socialdemocratica), per mostrarsi come uno che mantiene le promesse. Ha inoltre garantito che sosterrà i tentativi del Regno Unito per ottenere riforme nell’Unione europea. Ma l’incognita più grande di queste elezioni, oltre a un voto incerto che quasi sicuramente porterà a una qualche forma di governo di coalizione, è rappresentata dal Partito del popolo danese, formazione populista e anti immigrati che da anni è stabilmente la terza forza politica del paese, ha un consenso che oscilla tra il 12 e il 18 per cento, e in caso di vittoria dei liberali potrebbe diventare l’unico partner possibile per un governo di centrodestra. Il suo leader, Kristian Thulesen Dahl, ha fatto appello alla preoccupazione dei danesi, che dal 2009 hanno visto il numero dei richiedenti asilo nel paese quadruplicarsi, per spostare il tema della campagna elettorale dall’economia all’immigrazione, e costringere i due partiti tradizionali, liberali e socialdemocratici, a rincorrerlo con proposte sempre più dure sull’immigrazione e contro la solidarietà in sede europea.

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