Rolling Stone confessa, ma è la tesi dell'emergenza stupri che va rivista

La scrupolosa indagine della scuola di giornalismo della Columbia University conferma quello che a questo punto era già noto del racconto di uno stupro di gruppo in un campus universitario apparso lo scorso novembre sul mensile Rolling Stone: era un falso.

New York. La scrupolosa indagine della scuola di giornalismo della Columbia University conferma quello che a questo punto era già noto del racconto di uno stupro di gruppo in un campus universitario apparso lo scorso novembre sul mensile Rolling Stone: era un falso. Una fantasiosa e dettagliata invenzione di Jackie, presunta vittima di una terribile violenza sessuale perpetrata nel contesto melmoso dei rituali delle confraternite della University of Virginia, specchio di una situazione generalizzata. Quello che l’inchiesta, commissionata dal giornale e pubblicata domenica assieme al definitivo mea culpa del caso, certifica è che l’errore avrebbe potuto essere evitato semplicemente applicando minimi accorgimenti, pratiche standard del mestiere: verificare le fonti, fare controlli incrociati, ottenere i veri nomi delle persone coinvolte anche quando la fonte principale chiede – legittimamente – di essere protetta con uno pseudonimo. Sabrina Rubin Erdely, autrice dell’articolo, non ha fatto nulla di tutto questo, né i suoi superiori le hanno chiesto di farlo. Si è fatta trascinare per mesi dal racconto fittizio di una sedicente vittima che sapeva esattamente quali tasti narrativi toccare per solleticare gli istinti professionali della cronista, surrettiziamente inducendola ad abbassare la guardia. Una fonte loquace e con ottime doti descrittive è il sogno di ogni giornalista, a patto che il racconto sia veritiero. In caso contrario è un incubo.

 

I cronisti che dopo la pubblicazione hanno esercitato un minimo di scetticismo su una vicenda che poggiava sostanzialmente su una singola testimonianza hanno scoperto facilmente che la storia non stava in piedi, e la successiva indagine, durata quattro mesi, non fa che aggravare il disastro giornalistico (e non solo) andato in scena a Rolling Stone. Decine di persone sono state direttamente o indirettamente sputtanate dall’articolo, la reputazione dell’Università  ne è uscita malconcia, le confraternite sono diventata il male assoluto e, ironia tragica, alla fine anche la credibilità delle vittime di violenze ne esce ammaccata. Molti sono sorpresi che questo fallimento professionale non abbia portato al licenziamento di Elderly o di qualcuno dei suoi negligenti superiori. Forse perché esiste un’attenuante non detta, di carattere culturale e psicologico, ovvero la convinzione diffusa  che esista nelle università americane una tendenza all’assalto, un’incontrollabile emergenza stupri che automaticamente rende credibili le voci delle vittime e irrilevanti quelle di tutti gli altri. Erdely e i suoi capi a Rolling Stone non volevano soltanto raccontare la storia di Jackie, ma “speravano che la loro inchiesta suonasse un campanello d’allarme sulle violenze sessuali nei campus, e che l’Università della Virgina e altre fossero spinte a fare meglio” in termini di prevenzione e punizione. Altre inchieste – da quella di Emily Yoffe su Slate alle ricerche di Christina Hoff Sommers – avevano già rilevato che l’esplosione della cultura dello stupro nei campus era fortemente esagerata (sia chiaro: gli stupri esistono, e un solo episodio di violenza su una donna è già troppo, ma qui si parla di individuare e provare fenomeni e tendenze diffusi) e che molte misure prese della università per contrastare l’ondata di violenza percepita finiva per ledere i diritti degli uomini, potenziali vittime di accuse ingiuste in quella zona grigia dove la colpa non è sempre semplice da stabilire. Rolling Stone ha infranto tutti gli standard del giornalismo, ma i suoi protagonisti ne escono illesi perché il singolo caso fasullo confermava la teoria dominante.

Di più su questi argomenti: