Il superavvocato Barnett colleziona gemelli francesi degli anni Trenta, guida solo Toyota (ama l’affidabilità giapponese) e va a tutte le feste della capitale, perché è lì che si lavora sul serio

Il presidente ombra

La notizia che David Petraeus ha accettato di patteggiare, dichiarandosi colpevole di uno dei capi di accusa mossi contro di lui, è uscita mentre il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, stava prendendo a frustate la politica estera di Barack Obama dal podio del Congresso.

La notizia che David Petraeus ha accettato di patteggiare, dichiarandosi colpevole di uno dei capi di accusa mossi contro di lui, è uscita mentre il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, stava prendendo a frustate la politica estera di Barack Obama dal podio del Congresso. Da settimane l’invito di Bibi aveva messo Washington in subbuglio: la Casa Bianca s’è inalberata, i funzionari anonimi hanno chiamato le redazioni amiche, una cinquantina di membri del Congresso ha disertato, gli altri hanno prodotto una scena da Super Bowl politico, i lobbisti hanno fatto lobbying, i commentatori hanno letto e riletto la circostanza in tutti i modi possibili, si è parlato della bomba atomica dell’Iran, dell’irrilevanza percepita dell’America di Obama, delle elezioni in Israele, delle equivalenze morali fra lo Stato islamico e il regime degli ayatollah, il sistema si è sovraccaricato di informazioni e il ciclo delle news ha preso a girare nel suo modo vorticoso e monomaniacale. Una circostanza perfetta per seppellire una notizia slegata dal fatto che dominava l’attenzione della capitale. La notifica del dipartimento di Giustizia, che a gennaio aveva raccomandato il rinvio a giudizio di Petraeus, è arrivata proprio in quel momento. Si potrebbe dire che è una bella coincidenza, ma in certe sfere di potere le coincidenze non esistono, specialmente se nell’affare è coinvolto Robert Barnett. E a Washington sono pochissimi gli affari in cui non è coinvolto.

 

Barnett è uno degli avvocati di Petraeus, ma chiamarlo avvocato è un reticente esercizio di understatement. E’ quello che a Washington chiamano un “superlawyer”, un superavvocato, anzi dell’ufficioso albo dei superavvocati è il comandante supremo, il presidente plenipotenziario. Che cos’è un superavvocato? Mark Leibovich, capo della cronaca politica del New York Times Magazine e eminente ritrattista di chi conta a Washington, nel libro “This Town” spiega così la differenza: “Il servizio che Barnett offre al suo paese include una incredibile abilità nel promuovere i suoi clienti nei media e una altrettanto incredibile abilità nel ricordare alle persone dei suoi clienti nell’interesse di promuovere se stesso”.

 

Il superavvocato usa i suoi clienti per promuovere il suo status, si accredita esibendo una portentosa lista di celebrità alle quali presenta parcelle colossali, e a forza di ripetere l’operazione finisce per diventare una specie di arbitro del potere, il giudice che decide chi conta e chi può essere dimenticato, chi può riciclarsi dopo uno scandalo e chi rimarrà per sempre nel purgatorio degli impresentabili (l’inferno, in questo ambiente, è l’anonimato: in fin dei conti il disprezzo è una forma di riconoscimento). Alla fine sono i clienti che lo implorano di prenderli sotto la sua protezione per promuovere il loro status. Essere rappresentati da Barnett è di per sé una garanzia, e in un certo senso ciò che il superavvocato ottiene, in termini di risultati, per conto del cliente è del tutto irrilevante. Solitamente, poi, il superavvocato i risultati che il cliente chiede li ottiene, ma il solo essere nel suo team garantisce redenzione a chi è caduto e avanzamento di posizione a chi cerca di accreditarsi in società: “E’ il prototipo della persona che ha costretto Washington a lavorare per lui”, ha scritto Leibovich.

 

Barnett ha diverse specializzazioni. E’ curatore di relazioni, provider di accrediti sociali, facilitatore di rapporti, frequentatore di feste, crea campagne di comunicazione ad personam, gestisce crisi e pianifica rigenerazioni di personaggi esausti che Washington era sul punto di espellere. E’ superavvocato ma anche life coach, curatore d’immagine, confidente, stratega politico, fratello saggio e consigliere occulto. Per una vita ha offerto i suoi servizi pro bono alle campagne elettorali democratiche, e ha fatto da sparring partner di molti candidati nella preparazione dei dibattiti elettorali. Quando ha aiutato Clinton a preparare le sfide televisive con Bush, lo sconfitto gli ha fatto avere un biglietto: “Il problema, Bob, è che tu mi hai impersonato troppo bene”. Nel 1984 ha aiutato l’allora candidata democratica alla vicepresidenza, Geraldine Ferraro, prendendo le veci dell’avversario, sempre Bush, nei dibattiti preparatori. Alla fine della campagna, finita male per i democratici, ha scritto: “Bob Barnett, che a qual punto era nel ruolo di Bush, ha iniziato a calarsi davvero nella parte. Ha studiato le sue abitudini, i suoi discorsi e i suoi video così tanto che alla fine era diventato molto più efficace e molto più duro con me di quanto non fosse il vero Bush”. Ha raccontato questo dettaglio in un libro intitolato “Ferraro: My Story”, uscito nel 1985, per il quale ha ricevuto un anticipo da oltre 1 milione di dollari. A negoziare il contratto con l’editore è stato Barnett. Quell’episodio è probabilmente lo spartiacque fra il prima e il dopo, fra l’avvocato e il superavvocato. Così si è fatto un nome nell’èra dei memoir politici da classifica contrattando anticipi sontuosi per gli ex funzionari del governo che volevano arrivare sugli scaffali delle librerie con un certo slancio.

 

S’è inventato dal nulla l’aggressiva macchina di pubbliche relazioni che ha allargato il giro d’affari editoriale anche ai più oscuri operatori politici della capitale; per un ex presidente o segretario di stato non è difficile trovare un contratto milionario per un libro generalmente avaro di segreti, per il direttore dell’ufficio budget della Casa Bianca nell’èra pre-Barnett era improbabile ottenere un anticipo da 2,4 milioni di dollari per un memoir. Piazzando per quella cifra il libro di David Stockman, uomo di Reagan, Barnett ha dimostrato che il genere “insider di Washington” poteva avere un mercato fiorente. Il superavvocato ha connessioni sicure nell’ambiente editoriale, questo è certo, ma dicono abbia anche una passione personale per i libri, e discute con gli autori il taglio, il registro narrativo, i possibili titoli, i punti di forza da valorizzare per spremere qualche centinaio di migliaio di dollari in più all’editore. Quando il libro infine esce, il superavvocato s’immerge gongolante nella lettura delle pagine ancora fresche di stampa, immaginando per un attimo di essere un lettore medio. “Senza libri non posso vivere”, dice lui, citando ironicamente Thomas Jefferson. Philippe Reines, fedelissimo della banda Clinton, una volta ha detto: “Se Dio scrivesse di nuovo la Bibbia, di sicuro chiamerebbe Bob Barnett”.

 

[**Video_box_2**]La lista delle hit da scaffale tende all’infinito. Grazie a Barnett, Hillary ha incassato 8 milioni sull’unghia per il suo libro di memorie, Bill ne ha guadagnati 10, “Decision Points”, il libro di George W. Bush, ne ha ottenuti 7, l’autobiografia con cui Barack Obama ha creato le basi della sua narrazione pubblica l’ha piazzata per 500 mila dollari quando l’autore non era che un senatore semisconosciuto dell’Illinois; ha negoziato i contratti dei reality show di Sarah Palin e dei libri di Alan Greenspan, ha curato la delicata immagine di Hank Paulson, ha tratteggiato la carriera post Bush dell’architetto Karl Rove (Barnett è specialmente indicato per la gestione dei cambi di carriera, volontari o forzati che siano). E’ nel libro paga dell’intera capitale e non solo: da Dick Cheney a Benazir Bhutto, da Tony Blair a Barbra Streisand, è raro trovare un potente che non si sia mai rivolto all’uomo che ha portato le pubbliche relazioni a un nuovo, inesplorato livello. Nel 2007 si è ritrovato a rappresentare contemporaneamente sette potenziali candidati alla presidenza. I suoi servigi costano 975 dollari l’ora, e li valgono tutti. Lui, quintessenza del workaholic di Washington, garantisce una risposta alla mail entro mezz’ora dall’invio. Che il generale Petraeus si sia rivolto a lui quando è stato colto in un affare extraconiugale con la sua tonica agiografa, Paula Broadwell, è appena naturale. Le tappe della disgrazia petreausiana sono note: la cacciata dalla Cia, il disdoro pubblico, gli occhi appiccicati al buco della serratura, dapprima una faccenda soltanto di prurigine mediatica e puritanesimo moraleggiante; poi sono venute fuori le accuse, i quindici “black books” zeppi di appunti scottanti che il generale ha imprudentemente passato alla veterana diventata scrittrice e amante. Lei non ha riversato nulla di quel contenuto in un libro sostanzialmente innocuo per la sicurezza nazionale, ma il pasticcio ormai era fatto e l’unico che poteva costruire una strategia di riparazione era Barnett. Lo ha fatto subito entrare nel circuito degli speaker a gettone e dei professori a contratto, ha puntato tutto sulla legittimazione dell’ambiente accademico, per allontanarlo il più possibile dal fango mediatico, e ha assolutamente sconsigliato l’idea di scrivere un libro. Per quello ci vogliono altro tempo e altri mea culpa.