Bibi ha sconfitto i rampolli dell'aristocrazia. Perciò lo odiano
Roma. Una delle icone della cultura israeliana, Joshua Sobol, durante la campagna elettorale contro Benjamin Netanyahu, ha definito gli ebrei religiosi “stupidi che baciano le mezuzah”. La mezuzah è l’astuccio che contiene il piccolo rotolo di pergamena montato sugli stipiti delle case degli ebrei. In questa perfidia antireligiosa c’è il segreto della sconfitta del Campo Sionista di Isaac Herzog e la vittoria impressionante del Likud di Netanyahu. E’ la distanza che separa la sinistra che li chiama “parassiti” e i religiosi che rispondono con parole di disprezzo contro quel pezzo d’Israele che non sa più che cos’è, da dove viene, in che consiste. In queste elezioni ha perso l’élite del paese, schiacciata dal “secondo Israele”, come è noto il popolo che incorona Bibi. Netanyahu ha vinto nonostante avesse contro tutto l’establishment: i giornali, le televisioni, gli ex ambasciatori, gli ex capi del Mossad, gli ex generali in pensione, gli scrittori e gli artisti, le ong, Haaretz, il quotidiano simbolo dei caffè di via Shenkin, rifugio della bohème pacifista.
Si comprende questa spaccatura dalla mappa elettorale. Il Likud ha stravinto nella capitale, Gerusalemme, e nel nord e nel sud del paese. La sinistra ha dominato Tel Aviv e altre città del centro (a Gerusalemme Herzog ha ottenuto soltanto l’otto per cento dei consensi), i bastioni dell’Israele cosmopolita, sofisticato, edonista, urbano e letterario. Netanyahu ha sfondato in città periferiche, remote e minacciate dai missili di Hamas e Hezbollah, come Kiryat Shmona e Nahariya a nord, e poi Sderot, Ashdod, Ashkelon, Beersheba a sud. Anche Arad, la città del deserto meridionale dove ha preso casa lo scrittore Amos Oz, ha premiato in massa il Likud e bastonato i laburisti. Ashdod, la terza città più povera di Israele e una di quelle che cresce di più demograficamente, si è confermata un bastione della destra. Netanyahu ha con sé l’Israele che si sente, a torto o a ragione, ai margini della affluent-society.
Le elezioni hanno fatto emergere un paradosso: la sinistra è votata dalla parte ricca di Israele, mentre il Likud governa con il consenso maggioritario della pancia del paese che vive nei sobborghi di case basse dove abita quel sottoproletariato che ha incoronato “Netanyahu re d’Israele”. Come Gerusalemme, città poverissima dove capita che dieci centesimi di shekel siano una cifra significativa, che uno shekel (dieci centesimi) sia materia di discussione quando si tratta il prezzo. Il Likud è popolarissimo nelle sue strade povere ed eleganti, orlate di piante poco curate e piccoli edifici di pietra, con le sue yeshivah, le scuole religiose da dove entrano ed escono ragazzi in abiti religiosi, con gli tzitzit che si affacciano dalla giacca. Sempre in polemica con l’ambiente laico che li circonda, e ricambiati.
I ricchi stanno con la sinistra
Gli scrittori molto snob che in queste settimane hanno tifato il Labor non sopportano Gerusalemme, con le mani fanno un gesto come a spazzarne via la complessità, beati di essere andati a vivere a Tel Aviv o in qualche moshav hippie. Se Tel Aviv vive di potere e acquisizione, Gerusalemme vibra di identità. Molti elettori del Likud sono sefarditi, provenienti da paesi asiatici o africani; nemici del Labor prima che fan del Likud. Tutti devoti al rabbino Ovadia Yosef, che non risparmiò attacchi feroci alle femministe, alla Corte suprema, alla sinistra (“non tiene conto dell’essere umano, le interessa il potere”).
Netanyahu non è benvoluto a Kfar Shamaryahu, forse la città più ricca di Israele, dove vivono molti milionari. Prendiamo la lista degli israeliani più ricchi, da Idan Ofer a Stef Wertheimer (che ha venduto a Rupert Murdoch il suo impero): tifavano tutti per Herzog e Tzipi Livni.
Di contro, Netanyahu ha avuto dalla sua gli ebrei etiopi, ancora affondati in un mistero medievale, che ricordano gli inquieti vagabondi del deserto che furono per secoli.
E’ uscito sconfitto alle elezioni l’acerrimo nemico di Benjamin Netanyahu, Noni Mozes, il misterioso editore del quotidiano Yedioth Ahronoth con vaste proprietà nelle televisioni, che aveva fatto della cacciata di Bibi una crociata personale. Hanno perso i rampolli dell’élite ashkenazita, i figli e i nipoti di quegli ebrei, giunti dall’Europa nord-orientale, che Israele lo hanno costruito con la vanga, con la loro intelligenza messianica che li spinse alla conquista del paese, e con il fucile con cui lo difesero dagli arabi. Anche oggi in Israele il gusto della cultura cosmopolita, il grande amore per il teatro e, soprattutto, per la musica, sono di timbro tipicamente ashkenazi.
Gli altri, i sefarditi, che significa spagnoli, hanno sempre avuto il ruolo dei parenti poveri che si sono adattati mugugnando, fino a crearsi un complesso d’inferiorità che ha rasentato quello della persecuzione. Eppure, sono loro oggi a costituire “il grosso” di Israele, sia nelle unità dell’esercito sia come contributo demografico. Uno studio dell’Università di Haifa presentato alla Knesset recita: “Il paese avrà una leadership religiosa nel 2030. Oggi ci sono 700 mila nazionalisti religiosi e 700 mila ultraortodossi. Entro pochi anni, entrambe le comunità avranno due milioni e mezzo di membri. Gli unici figli delle famiglie laiche sono i ‘puppies’”. Ovvero due genitori, un figlio e un cane.
[**Video_box_2**]E’ alle famiglie numerose che il Likud di Netanyahu ha offerto il riscatto con un misto di capitalismo e patriottismo. Il kibbutz, con il suo rigido astrattismo ideologico alimentato di tecnicismo e dialettica persino sofistica, li ha sempre sgomentati e hanno preferito la sistemazione in città dove sembrava più facile arrangiarsi adattandosi a umili mestieri. E’ in quelle città che ha stravinto martedì Netanyahu. E’ da quelle città che viene anche il nuovo volto dell’esercito israeliano. “Tsahal diventa un esercito di periferie”, scrive Yedioth Ahronoth, perché il contributo maggiore fra i soldati giunge – oltre che dalle colonie – dalle periferie povere e religiose. Tutti bacini di voti del Likud. Come il marocchino, l’iracheno, l’algerino che fino a ieri hanno vissuto nel deserto, nella casbah, o nel ghetto. Come gli ebrei yemeniti, dai grandi occhi verdi, le barbe appuntite, i capelli avvolti in boccoli sulle spalle, il naso sottile, che li fa sembrare antichi medaglioni assiri. Continuano ad arrivare e, quando scendono dall’aereo, si curvano a baciare la terra e piangono. Il medico, l’architetto, l’ingegnere con doppio passaporto francese, americano o inglese – spesso fra quelli che in Israele protestano contro Bibi – è sempre in grado di andarsene da Israele per reinserirsi in quelle società. Ma un un ebreo religioso può tornare in Siria, in Iraq, in Libano o in Egitto? Nel dopo Kippur, quando una parte della sinistra proponeva l’abbandono d’Israele, i sefarditi fecero blocco. Dissero ieri e ripetono oggi: “Noi restiamo”.
Isteria migratoria