Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu (foto LaPresse)

L'amnesia d'Israele e la memoria di ferro dei suoi nemici

Mario Rimini
Non è un paese normale quello guidato finora da Bibi Netanyahu. Al di là delle elezioni politiche di oggi, il premier del Likud conserverà comunque un posto nell'Olimpo dei padri della patria dopo aver sottolineato l'anormalità di Israele, racchiusa nella sua vulnerabilità.

Israele vive oggi un'allucinazione fallace e pericolosa, di cui le elezioni hanno messo a nudo i sintomi. Lontano dal fervore pionieristico degli inizi; rimosso dall'ardore disperato di guerre di sopravvivenza; orfano del pudore carismatico della ormai estinta generazione dei padri della patria, lo Stato ebraico vuole credersi normale. E' un gran conforto, sentirsi normali. E così gli israeliani vogliono credere che la sabbia di Tel Aviv sia davvero Ipanema. Che Cesarea sia davvero Nizza. Che Eilat sia davvero la Florida. Che la Galilea sia davvero la Provenza. Che le spa sul Mar Morto siano davvero le stazioni termali dell'Europa e del Mediterraneo. Che le fertili terre coltivate siano davvero un'eterna Pianura Padana. Che partecipare all'Eurovision faccia di Israele uno stato europeo. Che i tornei di calcio e il turismo e la movida notturna siano davvero come a Barcellona, o a Milano. Gli israeliani si sono convinti - paradossalmente, anche grazie alla relativa sicurezza e prosperità che il lungo regno di Netanyahu ha garantito - di questa normalità che però purtroppo, quasi 70 anni dopo la fondazione precaria del loro stato, ancora non esiste. Anzi, esiste sempre meno. (leggi anche "L'incoscienza d'Israele").

 

Dunque abbiamo appreso che le preoccupazioni degli israeliani alla vigilia delle elezioni erano rivolte al costo nella vita, ai prezzi nei supermercati, alla giustizia sociale, alle pensioni. Questioni rilevanti, certo. Ma non quando si è al fronte. E Israele sembra voler smantellare un lungo periodo di governo del centro-destra in nome di valori, problemi e priorità che sarebbero perfettamente razionali in Danimarca, o in Canada. Dimenticando che Gerusalemme non è Ottawa, né Copenaghen. Hanno dimenticato, gli israeliani in cerca di normalità, che la loro capitale non è riconosciuta da nessuno. Neanche dagli amici. Che vivono entro confini fittizi e indeterminati che il mondo intero contesta, amici compresi. Che ieri c'erano le serre e i pomodori a Gaza, mentre oggi ci sono i tunnel di Hamas. Che se oggi esistono le università della Cisgiordania e le città sulle colline della Giudea, esse sono come colonie su Marte, avamposti artificiali in un pianeta ostile dell'atmosfera che uccide. Dimentica, Israele, che su scala nazionale lo Stato non è poi molto dissimile dal ghetto del passato. I vicini sono nemici, sempre più armati, sempre più risoluti nel loro progetto di sterminio. E l'economia, in guerra, non è la priorità.

 

Dimenticano che la pensione è di per sé un progetto a lungo termine - e il futuro lontano, nell'equazione di Israele, non smette mai di essere variabile per farsi finalmente constante. Dimentica, Israele, che solo la forza militare, ancora solo quella, le permette di esistere, e che se i nemici sono numerosi e possono permettersi di essere divisi e antagonisti, gli israeliani questo lusso non lo hanno. Dimenticano, gli israeliani che si dicono imbarazzati dall'isolamento internazionale in cui versa il paese, che tante volte in passato gli ebrei furono imbarazzati dell'essere ebrei in una società antisemita. E così tanti ebrei fecero di tutto per integrarsi, per essere buoni cittadini, per essere addirittura patrioti di nazioni non loro. Ma ciò non li salvo' mai dai pogrom, ne' risparmio' loro i treni di Auschwitz. Dimenticano, gli israeliani che credono alle sirene della normalità che la sinistra sfrutta un po' per malizioso inganno e un po' perché vittima genuina della stessa malattia che diffonde, che gli europei che si stracciano le vesti per Gaza e organizzano le flottiglie della Pace e montano le campagne di boicottaggio anti israeliano nelle università, non saranno contenti che Israele smantelli le colonie in Samaria e abbandoni Gerusalemme Est e scenda dal Golan e lasci la valle del Giordano. Loro vogliono Tel Aviv e Haifa e il Negev. Non sono poi così dissimili dagli Ayatollah che promettono morte ai sionisti. Entrambi hanno lo stesso obiettivo, e l'unica pace cui hanno interesse è quella senza più Israele.

 

Questa terribile amnesia collettiva è stata la cifra principale delle elezioni israeliane. E' l'illusione che come per ogni altro paese normale, basti sostituire il capo del governo e la sua coalizione, per risolvere i problemi. Per aggiustare il costo della vita, per garantire la pace sociale, o per non sentirsi i paria del mondo, recuperando credito agli occhi dell'opinione pubblica mondiale. Come se questi problemi dipendessero davvero da Benjamin Netanyahu. E come se fossero davvero questi, i problemi di Israele.

 

La realtà è ben diversa. Ed è tutto qui il significato profondo dello scontro ideologico tra il Likud di Bibi e la sinistra di Herzog e Livni. E' l'abissale distanza mentale tra chi vede la realtà di Israele - la sua anormalità, la sua insicurezza, la perenne linea del fronte che non solo non è arretrata ma non è mai stata così vicina e minacciosa - e chi, invece, è il pifferaio magico di una fasulla promessa di normalità, che porta con sé il pericolo fatale della vulnerabilità. Un esempio per tutti è la questione dei rapporti con gli Stati Uniti (leggi anche "Il voltafaccia"). Se l'America, che da sempre è al fianco di Israele, oggi è a disagio e mostra nella persona del suo presidente una insofferenza quasi ostile per Israele, sarà colpa di Bibi, sostengono a sinistra. D'altra parte, è lui che Barak Obama non sopporta. Semplice equazione - fondata però su un errore di giudizio imperdonabile, e non innocente. La politica estera di Obama è infatti un infinito disastro, che ha scardinato le fragili fondamenta della pace globale e ha gettato nel caos, in primis, proprio la regione in cui Israele e' costretta a sopravvivere. Le scelte di Obama sono responsabili della tragedia siriana, della disfatta irachena, della destabilizzazione di una gigantesca porzione della terra, dal Nord Africa all'Asia meridionale e persino al cuore dell'Europa.

 

Obama avrà pure ottenuto qualche modesto successo interno - una manciata di posti di lavoro, più sanità, qualche apertura a tematiche sociali e di diritti civili. Ha insomma migliorato l'umore della ciurma, mettendo un po' di colore alle pareti della nave,  tenendo le dispense piene, le stive pulite, e diffondendo messaggi di buon umore per un equipaggio che in fondo non ha idea di cosa ci sia, là fuori. Obama ha organizzato una bella festa allegra e rispettosa. Ma nessuno è rimasto al timone. E così la nave americana ondeggia in un oceano in tumulto, trascinando con se' la flottiglia alleata, che la segue in ordine sparso.

 

[**Video_box_2**]Ma l'America è grande. Alle frontiere ha il Canada e il Messico. E' ancora la superpotenza globale. L'Europa è malconcia e insicura ma nonostante tutto, forte di mezzo miliardo di persone, della più grande economia mondiale, e della confortevole protezione della Nato. C'è tempo per un altro ballo. E poi c'è Israele. Israele coi suoi confini troppo simili alle finestre del ghetto. Israele la cui popolazione non riempirebbe una grande città europea, e il cui esercito è potente ma non inesauribile e sconta, a differenza degli eserciti nemici, l'handicap nobile dell'alto valore dato alla vita dei suoi giovani. Israele con i grattacieli a tiro di cannone, anche se non ci fosse un'aviazione nemica. Israele i cui nemici fanno proseliti come uno tsunami che cresce sotto le scosse dell'odio genocida, e i cui alleati non sono più' così sicuri che valga la pena. Il disordine di Obama al massimo farà del male all'America. Ma l'America è – anche – un paese normale. Israele no.

 

Certo, non è mai cool interrompere il party, gridando che al largo si avvicina minaccioso un iceberg. Ed è questa l'offesa imperdonabile che chi si rifiuta di vedere la profonda anormalità israeliana rimprovera a Netanyahu, e al suo discorso al Congresso. Bibi ha stracciato ridicoli protocolli diplomatici - per lanciare un allarme esistenziale. Così facendo, ha esasperato la stizza di Obama, non ha probabilmente salvato la propria leadership - ma ha regalato a se stesso un posto meritato nell'Olimpo dei padri della patria. Da sempre una figura secondaria rispetto alla grandezza di un Ariel Sharon o di una Golda Meir, Netanyahu ha infine colmato la distanza, mostrando un coraggio e un carisma che relega i suoi oppositori politici al rango di ragionieri di partito. E non saranno le spese per il gelato della moglie a giudicarlo e a condannarlo nei libri di storia. E' semmai un'ironia amara che abbia raggiunto l'apice della propria statura di leader nel momento un cui rischia di essere deposto - da un esercito di nani.

 

Israele si risveglierà forse senza la guida controversa di Bibi Netanyahu. La sinistra, se andrà al potere, sarà subito invitata alla festa sul ponte di Obama. Ci sarà giubilo e chissà, forse persino il latte costerà un po' meno. Yie bseder. Tutto andrà bene. Certo Israele ce l'ha fatta anche senza David, Golda, Menachem, gli Ytzhak, Ariel. Con una differenza cruciale però. Nessuno di loro ha mai creduto che Israele fosse normale. E l'ultimo dei grandi, Bibi, è stato anche l'ultimo disposto a rischiare la popolarità, e la carriera, per continuare a non crederlo.