Benjamin Netanyahu (foto LaPresse)

L'incoscienza d'Israele

Giulio Meotti
Il gossip della campagna elettorale più banale di sempre nasconde l’angoscia di non poter “tenere”, come prima della guerra del Kippur

Roma. Israele è un fazzoletto di terra poco più grande della Lombardia, ma è l’unico stato del mondo la cui esistenza è messa apertamente in discussione. Il sud è sotto assedio fra il regime di Hamas e i tagliateste del Sinai. Il nord rigonfia di paura, in attesa che Hezbollah e l’Iran scarichino migliaia di missili sulla fertile Galilea. A destra c’è la Giordania, unico e precario cuscinetto prima dello Stato islamico. Nel mezzo ci sono i palestinesi, sempre più impazienti di accoltellare sionisti. A sinistra c’è l’unico confine tranquillo: il mar Mediterraneo. E’ lì che si vorrebbero far rotolare tutti gli ebrei. Eppure, Israele, alla vigilia delle elezioni di martedì prossimo, appare come beato.

 

Il paese si sente sicuramente forte dell’esercito più potente che ci sia “fra Marrakesh e il Bangladesh”, come ha detto Amos Yadlin, il generale candidato a diventare ministro della Difesa se la sinistra vincerà alle elezioni. Ma è anche il paradosso di uno dei paesi più minacciati e felici del mondo. Un sondaggio del Pew Center ha appena rivelato che il 59 per cento degli israeliani è soddisfatto del proprio paese, contro, ad esempio, il 33 per cento degli americani (per non parlare dei depressi europei). E se si confrontano il tasso di fertilità e quello di suicidi di Israele con quello di tutti gli altri paesi industrializzati, lo stato ebraico sta al primo posto della classifica dei paesi amanti della vita.

 

Nella campagna elettorale fra il Likud di Benjamin Netanyahu e il “Zionist Camp” di Isaac Herzog non si è parlato delle centrifughe all’uranio degli ayatollah, della Terza Intifada, del boicottaggio e dell’antisemitismo in Europa, dei rapporti con l’America, di califfato, di risoluzioni Onu, di nuovi muri da costruire, di nuove armi da sviluppare. Non ha influito sugli elettori il discorso che il premier Netanyahu ha appena tenuto al Congresso degli Stati Uniti. E pensare che tutti temevano la faziosità elettorale del suo intervento. Non hanno peso specifico sugli elettori le uscite contro Bibi degli ex capi del Mossad, degli ex generali, di chi ha avuto in mano la sicurezza del paese. All’israeliano medio il politico piace un po’ (non troppo) corrotto. E non gli piacciono le slealtà, seppur condite da expertise, di burocrati in pensione e mai eletti. Del tutto ininfluente il tema dell’economia, visto che Israele ha registrato una crescita del 2,6 per cento nel 2014 e per il 2015 ci si aspetta un balzo persino maggiore. Netanyahu ha reso il paese più ricco, più dinamico, più aperto agli investimenti. Tutti i salari crescono, compresi quelli degli insegnanti pubblici. Nessun israeliano pensa che il paese abbia bisogno di una diversa politica economica.

 

Nessuno parla di trattative con i palestinesi, visto che ogni partito ha la propria piattaforma che oscilla fra il fallimentare e l’irrealistico: il Labour di Herzog è per i due stati e per dividere Gerusalemme; il Likud dà voce al più totale e maggioritario scetticismo sulla reale volontà dei palestinesi; la destra di Focolare Ebraico è per l’annessione; Yesh Atid di Lapid vuole un “divorzio” dai palestinesi, ma anche tenere unita Gerusalemme; Kulanu di Moshe Kahlon evita di nominare il problema; Yisrael Beitenu di Lieberman è per lo scambio territoriale; la sinistra di Meretz per le linee del 1967. Un caos programmatico che nasconde il sospetto assoluto nei confronti del mondo arabo-islamico, anche a sinistra.

 

No. A dominare la campagna elettorale, a parte gli esercizi vocali di Herzog per migliorare la propria voce nasale, è stata la storia delle bottigliette. E’ successo che la first lady, Sarah Netanyahu, aveva l’abitudine di raccogliere le bottiglie vuote dalla residenza del premier. Ordinava poi all’autista di consegnarle a un supermercato e reclamare l’indennizzo dei vuoti, tenendo per sé il ricavo. Appropriazione indebita di fondi pubblici? Poi c’è stato lo scandalo del tappeto. Si è appreso che quando il presidente Obama ha fatto visita a Netanyahu, nel salotto del premier campeggiava un tappeto sfilacciato. Così un agente dei servizi segreti ci ha dovuto mettere un piede, per evitare imbarazzi. Se non bastasse, la campagna elettorale si è concentrata sul lato spilorcio di Bibi che chiedeva ai dipendenti di compiere acquisti mai rimborsati. Sotto accusa, quarantadue shekel per una bottiglietta di collirio per gli occhi. Diceva Golda Meir a Oriana Fallaci, nel 1972: “Quindici anni fa in Israele non c’erano quasi furti, né assassinii, né prostituzione. Ora invece abbiamo tutto, tutto...”. E prima dei tappeti e dei vuoti di bottiglia il paese è stato ipnotizzato dal costo dei gelati al pistacchio di Netanyahu e dei letti speciali che il premier ha chiesto di installare durante il volo di rientro da Washington.

 

E’ questo Israele, un misto di incoscienza e di fortezza da Deserto dei Tartari. La banalità quotidiana di Israele, che si riverbera nella sua campagna elettorale, nasconde qualcosa che la rende del tutto irriferibile a quella di qualsiasi altro paese civile occidentale. La normalità israeliana è in sostanza anormale, è radicata su qualcosa di oscuramente traumatico. Il vero volto della sicurezza e dell’invulnerabilità israeliane, che hanno come specchio la frivolezza in politica, sono insicurezza e vulnerabilità.

 

[**Video_box_2**]Si parla del tappeto di Bibi per non pensare della nuova Masada. Gli israeliani, disillusi del passato e increduli dell’avvenire, sono coscienti della propria forza, oggi come ieri, ma appaiono induriti, inacerbati, sentono fisicamente che non possono abbandonare la guardia nemmeno un giorno, hanno la sensazione d’essere sempre più isolati in un mondo indifferente e che la stessa America è sempre più lontana. Tutto il gossip, questa spensieratezza, è il discrimine che separa Israele dal mondo arabo-islamico. La società palestinese non va al cinema, è concentrata sullo scontro, nelle strade e nell’agone diplomatico. La società israeliana è diversa, vuole vivere. E’ come Momik, il personaggio di “Vedi alla voce: amore” di David Grossman, l’adulto dall’aspetto fisico di uno scolaretto.

 

Qualcuno paragona l’incoscienza israeliana al periodo intercorso fra il 1967 e il 1973. Dopo la vittoria di giugno, il paese si divertiva, adorava il nuovo vitello d’oro, il consumismo che dilagava dai fortini della linea Bar-Lev sul canale di Suez ai night club di Tel Aviv. Nessuno prese sul serio i movimenti di truppe sul canale e sul Golan (oggi sono le centrifughe dell’Iran). C’era boriosa sufficienza in tutto il  paese. Poi arrivò il 6 ottobre 1973, lo sfondamento delle linee, l’angoscia di non poter “tenere”, di essere ricacciati in mare. Dopo la vittoria per disperazione, la gente apparve più matura, come dopo una malattia. Da allora, la possibilità di sparire, di fare le valigie, domina la coscienza di ogni israeliano. Meglio fare i conti in tasca a Bibi e dare una sbirciatina al suo salotto di casa. Si vive meglio. Come se si fosse in un paese normale. Come se non ci fosse soltanto la mobilitazione perenne. Come se, oltre alla maschera antigas, ci fosse anche il collirio di Bibi.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.