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I colloqui
Non basta un aumento dei lavoratori. Conta la produttività
La correzione Istat di 120 mila lavoratori in meno riporta l’Italia coi piedi per terra. L’occupazione tiene, ma il paese può crescere davvero solo se il valore aggiunto per ora lavorata sale. Senza innovazione e produttività l’aumento degli occupati non basta. Parlano Del Conte e Seghezzi
“Non basta che aumentino gli occupati: se non cresce proporzionalmente anche la qualità del lavoro e il valore aggiunto, e quindi la ricchezza prodotta, scatta l’allarme”, dicono al Foglio Maurizio Del Conte, professore ordinario di Diritto del lavoro alla Bocconi, e Francesco Seghezzi, esperto di mercato del lavoro e presidente di Adapt, a commento delle nuove stime Istat sull’occupazione.
Come ricostruito da Luciano Capone e Riccardo Trezzi sul Foglio, l’Istat ha pubblicato una revisione che ricalcola le stime sul mercato del lavoro. Con la nuova serie destagionalizzata (ripulita dagli effetti stagionali sul lavoro), a luglio gli occupati sono stati 24 milioni e 217 mila. Il confronto con i primi dati stimati mostra il taglio: a giugno precedente se ne contavano 24 milioni e 326 mila, ora 24 milioni e 205 mila. Il livello degli occupati risulta più basso di circa 120 mila unità e la crescita dell’ultimo anno si dimezza rispetto alle stime precedenti.
“Le stime restituiscono comunque un quadro positivo rispetto a qualche anno fa", dice Seghezzi. La revisione, però, ridimensiona il “boom” occupazionale raccontato in passato - sostiene Del Conte - e rende più coerenti fra loro occupazione, pil e produttività: il mercato del lavoro appare meno surriscaldato e più in linea con il ritmo reale dell’economia. Continua Seghezzi: “I dati sul secondo trimestre pubblicati dalla Commissione europea, rispetto al primo trimestre, registrano -0,1 del pil italiano, con relativo -0.1 sulla crescita dell’occupazione: la proporzione torna”.
Nonostante una buona crescita dei numeri degli occupati, in linea con il trienno pre-Covid (2017-2019), l’Italia non è l’unica interessata da questo andamento positivo. “La crescita del numero degli occupati è stata registrata in tutta Europa”, ricorda Seghezzi. La ricchezza prodotta non aumenta però in proporzione al numero dei lavoratori. Il tema è questo: possono anche aumentare il numero degli occupati, ma se non cresce la loro produttività, il miglioramento rimane marginale. “Il valore prodotto aggiuntivo è uno dei principali problemi al momento”, continua Del Conte, “ma gran parte della crescita dell’occupazione si è concentrata in settori a valore aggiunto più contenuto”. Le zavorre strutturali sono note, ma non per questo meno pesanti. “Il tasso di partecipazione femminile e giovanile restano bassi, nonostante la crescita complessiva degli addetti", ricorda il professore della Bocconi, che aggiunge: “In Puglia solo una donna su tre lavora”.
C’è poi la questione delle forme contrattuali. Qui la fotografia è diversa dal passato: rispetto a 4-5 anni fa, oggi l’occupazione è in prevalenza a tempo indeterminato. “Eravamo abituati alle "job-less recovery", ossia alle crisi cicliche del pil seguite da un forte rallentamento dell’occupazione. Questa volta è andata diversamente”, nota Del Conte, che aggiunge: “La preoccupazione di assumere e quindi di investire nel lungo termine in condizioni di incertezza hanno sempre caratterizzato il processo di assunzione in Italia, ma negli ultimi quattro anni si sono sommati fattori strutturali: demografia e difficoltà di formare lavoratori con le competenze richieste dal mercato. A questo si è sovrapposto il Pnrr”, ragiona il professore, “che ha indirizzato investimenti verso settori e skill dove eravamo scoperti: bene per l’innovazione, ma con l’effetto collaterale di rendere più difficile reperire profili adatti a implementare i progetti”. Del Conte parla di “patto implicito”: tempo indeterminato in cambio di condizioni migliori, ma non necessariamente di retribuzioni più alte. Con margini stretti e valore aggiunto che fatica a salire, le imprese hanno reagito offrendo “stabilità e migliori condizioni non salariali (tutele, lavoro da remoto) più che aumenti retributivi”, concordano gli esperti. E sta cambiando anche l’organizzazione: “Cresce la flessibilità spazio-temporale nel lavoro subordinato, prima tipica dell’autonomo: le modalità si avvicinano”, dice Seghezzi.
Inoltre, per Del Conte “abbiamo subito una forte perdita del potere d’acquisto a causa dei due anni di forte inflazione (2022-24) che però non abbiamo recuperato in termini di aumenti salariali. Il problema - insiste - è di produttività oraria: quanto valore si genera per ogni ora resta basso”. E sulla tentazione di risolvere tutto col salario minimo, l’avvertimento di Del Conte è netto: “In un sistema complesso e frammentato come il nostro, con forti differenze territoriali, il rischio è produrre comportamenti distorsivi e opportunistici”.
Da cosa dipende quindi la produttività e la qualità del lavoro? Non soltanto dalla tecnologia, ma anche dall’organizzazione: “Mancano contesti e infrastrutture che consentano ai lavoratori qualificati di trasformare le competenze in valore aggiunto”, osserva Seghezzi, “Negli ultimi anni, complice l’inflazione, molte imprese hanno scelto di investire più sul lavoro che sul capitale: Il lavoro è costato relativamente meno, mentre gli investimenti in capitale erano più onerosi. Quindi si è scelta una maggiore intensità di lavoro”. È una strategia comprensibile nel breve periodo, ma che limita i salti di efficienza. Sullo sfondo, l'avanzo primario (il risultato della differenza tra le entrate e le uscite dello stato o delle amministrazioni pubbliche, escludendo le spese per interessi sul debito pubblico) dell’Italia resta sotto all’1 per cento: un altro promemoria della fragilità complessiva.
“La produttività si alza con tecnologia abilitante e modelli organizzativi adeguati”, ricorda Seghezzi. Il capitale umano va aggiornato: “Abbiamo una quota elevata di over-50 con competenze tecnologiche obsolete: serve formazione continua e innovazione del lavoro”. Nel frattempo, il mismatch tra domanda e offerta resta ampio: “Le aziende quando cercano trovano. Chi cerca lavoro invece fatica”, dice Seghezzi. Del Conte aggiunge un elemento: "L’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ci dice che l'incontro tra domanda e offerta del lavoro si trova nella parte bassa delle competenze”. In breve: nei settori a basso valore aggiunto e caratterizzati da un livello di qualità inferiore. Per Del Conte “serve offrire cura e alternative per il passaggio dall’educazione della scuola alla formazione tecnica, per sviluppare le proprie capacità personali, poi spendibili nel mercato del lavoro”.
Abbiamo anche un problema di scarsità di campioni che generano e guidano filiere importanti nelle quali si inseriscono imprese medie. Per il professore: “Il problema non è il numero delle Pmi, ma quante di queste riescono a crescere. In Italia si fa tanta impresa, ma spesso non si scala. Talvolta, anche per timori fiscali percepiti come penalizzanti, si preferisce restare piccoli e all’ombra. Poche realtà come Leonardo non bastano a trainare ecosistemi in cui anche le medie possano fare il salto”.
Infine, l’elefante nella stanza: il lavoro in nero. “È un tema cruciale”, dice Del Conte, “la complessità burocratica e fiscale rende la “compliance” (conformità) costosa e riduce la competitività” E il contrasto non è semplice, chiosa Seghezzi: “Senza investimenti significativi e con ispezioni qualitativamente complesse, è difficile incidere davvero”.

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